venerdì 21 dicembre 2007

Se dal Vespa delle Feste Babbo Natale è Rutelli



(in edicola il 20 dicembre 2007)

Il più recente appuntamento “impegnato” con Porta a Porta nasce, non cresce e muore con il solito quesito, l’altro ieri: “perché il maggiordomo Paolo Baroni non si ribella e non prende il potere, distribuendo al pubblico in studio i manicaretti e le leccornie residuati dell’ultima puntata sull’alimentazione?”.
Il tema è il punto sul governo. Francesco Rutelli gode della posizione più privilegiata all’interno del salotto, quella che sarebbe spettata di diritto a Babbo Natale, se non fosse stato già impegnato a intrattenere parte delle casalinghe disperate, su Rai Due e non, da Los Angeles a Voghera: subito sotto l’albero di Natale (che Paolo Baroni deve aver allestito con odiatissima sobrietà, se non altro per via di conflitti vari con le luci di scena).
Non c’è dunque una sola inquadratura del ministro delle Attività culturali che non lo ritragga perfettamente corredato di palle e lustrini, con tutta l’invidia di Pierferdinando Casini, cui non è spettato altro decoro che l’altro ospite in collegamento, dal maxischermo alle sue spalle: Maurizio Belpietro. Che, ugualmente brizzolato, ma infinitamente più concreto e pungente, pare di Casini uno di quei “doppi” cattivi che tanto spesso nei b-movies tedeschi su Rete 4 si tengono nascosti, per una vita, anche al fratello gemello “buono”, salvo poi uscire allo scoperto all’improvviso e fare piazza pulita di lui e del resto della famiglia.
Tutto procede tranquillamente, fino a quando Rutelli e Casini cominciano ad alzare la voce sulle norme sulla sicurezza e, la parte dello staff tecnico che non ricorre alle uscite di emergenza, è tutto un bisbigliarsi la parola d’ordine, venuta dall’alto: “mentre Rutelli grida, solo primo piano, non inquadrare albero”.

Ma, in fin dei conti, si tratta pur sempre di una puntata natalizia di Vespa, e anche quello che farebbe sperare in un po’ di sana ultraviolenza verbale, è destinato a ripiombare, se non nei soliti tarallucci e vino - di cui di norma il Cavalier Bruni ha il compito di testare la qualità organolettica - almeno in Renato Mannheimer e nei suoi sondaggi antistress.
Prima, giusto per mettere in disaccordo tutti, servizio di Roberto Arditti, con erre moscia di ordinanza, sull’Alitalia. Ed ecco che l’albero, dietro Rutelli, può ritornare, mentre ci dimostra, con argomentazioni inconfutabili, che dobbiamo dimostrare ai nostri figli che non è possibile abbandonare Malpensa e che soprattutto possiamo ancora dire la nostra sulla composizione del consiglio d’amministrazione della compagnia aerea più amata dai titoloni.

Il ruolo della concretezza sobria e cortese spetta, come sempre più spesso accade, a Mario Orfeo, direttore del Mattino di Napoli.
Ma sono perlopiù sforzi inutili. Più il tempo passa e più ci accorgiamo che Porta è porta è una delle più perfette, complesse e realistiche macchine sceniche atte a rappresentare i difetti del nostro paese. Spesso, è una parodia della vita che investe i campi più vari, lavorativi e sociali: più o meno, tutti quelli dai quali proveniente ciascuno degli ospiti che si alterna alle poltrone. Altre volte – nei casi di puntata dal tenore di contenuti più elevato, come questa - pare che Porta a porta voglia essere solo una versione della televisione, come non dovrebbe essere, ma è sempre stata: al massimo della sintesi, la tv nella quale accadono veramente solo le cose che si dicono o si fanno immaginare, e tutto il resto sfumi nel mondo delle idee, di quell’iperuranio fittizio che invece sono i fatti, sottosopra com’è, ormai, la concezione del mondo e della politica nel mondo.

giovedì 20 dicembre 2007

Il destino di un principe, una fiction di fascino



(in edicola il 19 dicembre 2007)

Il destino di un principe è un film per la tv di raro fascino e share, almeno in Austria (50%, vi compare Sissi, del resto), l’altra terra coproduttrice di questa fiction diversa, meno addentro lo spirito facilone, melenso o provinciale imposto dai massimi successi del genere (uno su tutti: l’ultimo Guerra e Pace), e più vicina alle piccole invenzioni inattese, ai dettagli di classe registica di una produzione come i recenti Vicerè di Roberto Faenza, pur naturalmente senza avvicinarvisi troppo. Data anche la ferma mano austriaca dietro il tutto, naturalmente. Come molti avranno finto di ricordare perfettamente, dando uno sguardo alla trama sui giornali, la storia è di quelle che cambiano il corso di quella d’Europa, e dunque in parte del mondo: la nascita dell’amore – e il suo tragico epilogo suicida – fra il principe ereditario al trono d’Austria Rodolfo d’Asburgo (figlio di Francesco Giuseppe e di Elisabetta detta Sissi) e la sua amante baronessa Mary Vétsera.

Rudolf è interpretato dalla star della televisione tedesca Max von Thun, il vero Alessandro Preziosi morale d’oltralpe; la giovane Mary da Vittoria Puccini, l’unica attrice così amata dal pubblico che ormai anche i blogger più cruenti amano definire “bella e brava”, nei post che un tempo avrebbero dedicato ai difetti di una nuova versione di Windows Vista. Se ci sono al mondo dei cinefili spinti di generi come il film storico di ambientazione asburgica, questa produzione farà leccare loro i baffi impomatati alla Franz Josef. Un solo motivo cultuale su tutti: non è nient’altri che Omar Sharif – che interpretò Rudolf in persona nell’amatissimo Mayerling di Terence Young (con Catherine Deneuve nella parte della Vétsera, e in quella di oggetto del desiderio di più di un soldato-comparsa) – a recitare nel ruolo del pittore Hans Canon. Sono cose che, per un pubblico attento, che magari participa ogni anno alle parate dei sosia degli imperatori austro-ungarici a Bad Ischl (Austria), può fare la differenza, e rendere plebiscitario un risultato d’ascolto molto più di un semplice bel moto di cinepresa o, rarità ancora più preziosa, di sceneggiatura.

Per noialtri, invece, contano soprattutto scene come quella d’apertura (subito dopo l’antefatto che introduce un lungo flash-back). In cui il pittore Hans, nel ritrarre Rudolf e nell’impersonare una delicata metafora del regista e dell’operazione intera di fiction biografica cui partecipa, raccomanda, in un gioco di rappresentazioni concentriche che sarebbe la gioia di una tesina di semiologia a Scienze delle Comunicazioni, al modello di “non muoversi”, perché devono essere entrambi concentrati. E’ chiaro che ne La figlia di Elisa tutto questo non potrebbe avvenire. Il modo in cui una dissolvenza ben piazzata passa dalla mano di Sharif che dipinge a quella di Max che palpeggia un compagna di stanza, fingendo id tracciare una mappa geografica sulla sua schiena, lascia intendere che anche le donne che amiamo, in fin dei conti, un po’ le idealizziamo, le modifichiamo ai nostri occhi, come se in parte le dipingessimo con infiniti pentimenti e correzioni. Neanche questo troverebbe posto nella fiction media italiana. Andiamo bene, se abbiamo bisogno di un apporto dalla tv popolare austriaca per ricordarci dove sta di casa la sensualità di un pellicola.

mercoledì 19 dicembre 2007

Un karaoke senza gobbo E ora chi fermerà Pupo?



(in edicola il 18 dicembre 2007)

“Chi fermerà la musica?”, condotto da Pupo nell’edizione italiana, è un game-show basato su un format americano di largo successo (The singing bee – L’ape canterina, di cui è pronta perfino una versione islandese) e su un’idea che pure solo dieci anni fa sarebbe stata allontanata con fare sdegnoso anche dal più becero dei capistruttura, ed invece oggi pare che si possa gridare al miracolo per quanto pare ingegnosa e originale. Tali sono i mali tempi che corrono. Si tratta di un karaoke senza gobbo (il testo che di norma scorre su un monitor o su carta per comunicare ai conduttori i nomi di battesimo dei loro migliori amici ospiti in studio, quando stare zitti che senza dire: “stare zitti”, e altre astuzie). Più che umiliare i concorrenti per la scarsezza delle performance canore in sé, dunque, lo scopo principale di “Chi fermerà la musica” è umiliarli per la scarsezza di memoria, nel tentativo ricordare i testi di canzoni anche notissime o bruttissime, mentre le cantano il peggio possibile, con la scusa della buona memoria. Il tutto, condotto da Pupo e animato da una serie infinita di occasioni in cui Pupo stesso, come in una mastodontica excusatio non petita, ripete e se stesso e al suo pubblico che il gioco è rivoluzionario e si basa sulla memoria dei concorrenti, come se avesse paura di dimenticarlo.

Questo programma è insomma un Furore (il vecchio capostipite dei game-show musicali italiani, condotto dal dimenticato Alessandro Greco) degli anni 2000: con molto più reality, e solo uno dei tanti giochini di un tempo, ma elevato a unica ragion d’essere ludica, drammatica e scenica di tutto l’impianto del programma. Insomma, qualcosa di volto al minimo dispendio di idee e di tempi realizzativi (soprattutto perché sotto format).

Nonostante questo, le ballerine sono in forma almeno quanto quelle di Artù, il nuovo programma di Gene Gnocchi, la vera rivelazione di questa stagione in fatto di talent scouting di fanciulle. Altra nota positiva, nello sconcerto generale, il ritorno di un personaggio sempre sopra le righe, fuori e dentro il sistema televisivo: il vecchio direttore delle orchestrine di Maurizio Costanzo, Demo Morselli. Colui che non ebbe paura di dotare il suo vecchio impresario di un sassofono finto da suonare facendo ondeggiare il corpo, qui è sempre un cipiglio, una smorfia, un sorriso più avanti di tutto il resto. Perfino delle sezioni più frondiste e indisciplinate del pubblico, le stesse che fingono di sapere tutti i testi proposti ai concorrenti nel tipico, primo playback che si impara coi canti al catechismo: “Uno, due, tre; uno, due, tre”. Sappiamo che Demo non crede a una parola di quello che si dice al di là dello spazio dell’orchestra (e forse neanche del tutto all’orchestra stessa che gli è stata consegnata), ma continua imperterrito il suo ruolo di capellone addomesticato, di buon musicista con pelo anche sullo stomaco, che non ha neanche il tempo di dirsi “che si deve fare per campare”, perché una nuova base in scaletta incalza, e non è necessariamente un male dimenticarsene una volta ancora.

martedì 18 dicembre 2007

Sottovoce, quell’evergreen che non potrà mai peggiorare



(in edicola il 16 dicembre 2007, anticipazione e commenti qui)

Forse il programma feriale di Gigi Marzullo - Sottovoce, Rai Uno, una di notte - non potrà mai peggiorare (quello della domenica, sempre notturno, Cinematografo, è purtroppo inchiodato a una qualità medio-alta dal livello di almeno uno degli ospiti fissi: Gianluigi Rondi). Forse, “vista l’ora” (come direbbe lui), le nostre capacità di restare insensibili o addirittura soddisfatti davanti a qualsiasi manifestazione dell’ingegno umano aumentano il livello di pelo sul loro piccolo stomaco mentale. Forse, infine, Marzullo è veramente un poco migliorato. In ogni caso, sarà per uno di questi motivi – o al massimo per una combinazione più o meno letale di essi – che da qualche tempo ogni possibile accenno a una sorta di interesse o anche solo di lieve intrattenimento da parte di una delle sue domande o di una delle risposte che gli si danno, ci stupisce e ci felicita come se si trattasse di una quelle scoperte che, fatte di giorno, ci lasciano del tutto indifferenti. Ma, di notte, possono fare la differenza: un editoriale interessante sull’Unità; un richiamo di animale notturno particolarmente elegante; l’avvisaglia di un nuovo brufolo.

Principe delle tenebre televisive, più ancora del sempre inguardabile Gabriele La Porta, Marzullo ha però la caratteristica di non trascorrere il giorno in una cassa scura nascosta chissà dove, come tutti gli altri vampiri dei palinsesti (non esclusi forse neanche i docenti del progetto Net-tuno): forte di una grossa differita della messa in onda, Gigi vive il resto della sua esistenza presso il bar Ciampini di piazza in Lucina a Roma, circondato da fanciulle e affettati tutt’altro che trascurabili. Puntata memorabile e del tutto stracultuale (nonostante la delicatezza dell’argomento, certo) quella dedicata, giovedì, all’urologo Vincenzo Mirone e all’urologia in senso lato. Basti pensare che tutto comincia con il seguente botta e risposta, fra il sempre fintissimo tonto Marzullo e l’ospite in studio, che non si fa scappare un’occasione. La domanda, insomma, è una di quelle che avrebbe potuto scrivere il migliore autore di Maurizio Crozza per una sessione di imitazione delle grandi occasioni. La risposta, invece, l’avrebbe potuta dare solo un grande medico napoletano.

“Lei cosa si sente di dire a un paziente che in un certo senso soffre un po’ di prostata, a quest’ora?”. E l’altro, senza pensarci un istante: “Sinceramente, di alzarsi”. Gigi sa incassare, e incalza. Ma Mirone non è da meno, e continua asserendo, professionalissimo ma non accademico o noioso, che proprio il fatto di stare svegli all’ora della trasmissione di Marzullo è purtroppo un segno che qualche problema di prostata potrebbe esserci. Visto che Marzullo non ride né fa alcun cenno di essere stato così abilmente touché, Mirone snocciola qualche parolone che mette un po’ a tacere qualche dubbio che il suo acume possa aver in qualche modo offeso l’avellinese che, del resto, è pur sempre il conduttore del programma in cui ci si trova.
Niente di più lontano dalla realtà. Gigi sta solo pensando alla prossima, perfida questione. E alla sua prossima cravatta a tinta unita.

lunedì 17 dicembre 2007

La web tv oltre YouTube



(in edicola il 14 dicembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

“Non rassegnata stampa” (www.nonrassegnatastampa.it) è uno dei pochissimi, tentativi riusciti - se non l’unico - di realizzare un programma televisivo in italiano trasmesso solo via internet, senza ricorrere alla solita diffusione per mezzo dell’onnipresente Youtube, o alla noia seriale e mortale da parte del pubblico. Diciamo riuscito perché, per quanto si sia già oltre la centesima puntata, in ogni video disponibile (tutti archiviati e commentati, a partire da una home page organizzata come un blog) non si avverte alcuna stanchezza o ripetitività, ma anzi innovazione e un po’ di affezione per il duo che lo conduce.

È realizzato nello spirito di un reality show, ma ben scritto e ben recitato, che riprende la vita quotidiana di due attori, che per fortuna lo sono anche nella realtà: uno più comico puro (Filippo Giardina) e l’altro più autore parlante (Mauro Fratina). Raccontano le loro ricerche di spazio in tv e in teatro - cosa che, del resto hanno ampiamente avuto, nella vita, prima di optare per questa svolta totalmente indipendente e originale. Tornati a casa, davanti alla webcam, si lanciano in brani di satira politica e culturale tanto efficaci che arrivano a sparlare di Rita Levi Montalcini senza mai cadere di stile o di contenuti, e sempre sul filo sottilissimo dell’attualità delle notizie del giorno. Che – scusate se è poco – è un po’ come trovare un motivo veramente valido per sparare sulla Croce Rossa, e poi ridere insieme a lei della classica bandierina onomatopeica che ne era il colpo in canna.

Così, ad esempio, nell’occasione di una visita alla Rai, per un colloquio donchisciottesco con il direttore del “primo canale” Del Noce (finto a reale che sia, è comunque donchisciottesco), i due escono forse sconfitti nella forma, ma ispirati creativamente nella sostanza. Segue una puntata spassosa sulla fiducia in se stessi e nel proprio governo. Da segnalare la mini-saga dedicata ai preti. Opportunamente travestiti da “Men in black” (clergyman d’ordinanza e occhiale da sole post Vaticano II), e senza neppure porsi il problema di interpretarne uno buono e uno cattivo (anche se uno dei due è chiaramente più ecumenico, e l’altro meno socievole), Mauro e Filippo, da un casolare in campagna, cercano di diffondere nel mondo la loro interpretazione dei dieci comandamenti, con delle pratiche lezioni video da “guida al fai da te” in edicola.

Geniale la sigla con cui una di queste puntate sul clero si conclude: mentre uno dei due lava con una pompa da giardino il cotto davanti all’uscio della casetta (simbolo delle coscienze), e l’altro chaplinianamente lo soprende con una secchiata d’acqua (simbolo della sua, di coscienza). I due non hanno mai la freddezza che vorrebbe essere british, ma non può, del possibile concorrente “Quasi Tg” di Rocco Tanica (da anni fra i migliori italiani in musica, con Elio e le storie tese, con il solo difetto di aver deciso di dedicarsi a un’impresa così infelice dal punto di vista tanto della scrittura quanto della qualità degli interpreti-inviati, con l’eccezione della stessa Deborah Magnaghi di tante edizioni di Bim Bum Bam). Speriamo sinceramente che questa ennesima parodia del telegiornale, come se Striscia e almeno una decina di imitazioni più o meno malriuscite non ci fossero già state, sappia riprendersi o rinnovarsi completamente.

venerdì 14 dicembre 2007

Carlo Conti: il quizzaro non onnisciente



(in edicola il 13 dicembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Finalmente, dopo i duri colpi d’accetta che pure un conduttore del calibro di Amadeus gli aveva inferto, il quiz televisivo conosce il culmine dell’inversione a U della sua estetica originaria, in direzione di un suo probabile smantellamento, con Carlo Conti e la sua versione de L’eredità (Rai Uno, tardo pomeriggio, dal lunedì al venerdì). Si sa che da sempre il telequiz è stato il regno di una convinzione del pubblico, senza la quale il successo e l’essenza stessa del genere, forse verrebbero meno: quella secondo cui la persona che presenta (che si tratti di Marco Mazzocchi o di Enrico Papi, poco importa) è un pozzo di scienza; quasi non avrebbe bisogno di leggere le risposte alle domande del copione; può prendersi gioco dei dubbi dei concorrenti o suggerire le risposte, tramite gli interventi divini noti come “aiutini”. Neanche a Gerry Scotti si nega il primato di questa onniscienza, ed è un merito tutto suo, guadagnato e mantenuto con abilità (quella che il grande Robert De Niro, pirata gay, ma all’apparenza tutto d’un pezzo, nel film Stardust, chiamerebbe: reputazione), quello di sapersi vendere come il vero e solo nuovo Mike, che passa dall’astrofisica all’indie rock con la stesa nonchalance con cui si passerebbe da una mano all’altra una tre quarti doppio malto.

Carlo Conti è il primo conduttore di quiz evidentemente talmente impreparato e insicuro di nozioni anche sul solo senso dell’umorismo in lingua italiana, che è forse il primo cui non riesca di fingere neanche per un po’ quella fondamentale onniscienza, che pure ad Amadeus, come sta confermando, ora su Canale 5, non sfugge di mano. Eppure, questo non significa necessariamente uno svantaggio: forse siamo semplicemente di fronte a una di quelle accelerazioni, nei cambiamenti che invece avvengono lentamente, di solito, giorno per giorno, che in caso di sopravvivenza della specie contribuiscono ancora più rapidamente all’evoluzione di essa. Carlo Conti non solo non fa mai ridere, ma viene anche spesso ripreso dai concorrenti quando sbaglia i tempi o proprio le parole di una battuta. Non sappiamo se tutto questo avvenga pure per copione ma, disgraziatamente, neanche tutto questo fa ridere.

Il punto è che qui davvero non si tratta della sottogenere della gaffe ben posta, che ha reso inimitabile il quiz di Mike Buongiorno. Sbagliare un cognome o un comune di provenienza, si sa, se la nuova versione è abbastanza sessualmente riferibile, può significare indovinare una puntata intera. Lo ha insegnato Mike, e da lui lo hanno imparato una serie interminabile di conduttori, anche non necessariamente spesi nel quiz (perfino in molti telegiornali di basso o bassissimo livello, avviene quotidianamente almeno un omaggio a questa antica tecnica della retorica tv).

Ma ciò che più conta, come dicevamo, è che Carlo Conti non dà per un solo instante l’impressione di sapere cosa ci sia sul copione. Non cerca di fingere di non ricordarlo (come alcuni conduttori del tipo onnisciente, ma già un po’ geneticamente modificati, hanno cominciato a fare da tempi). No, Carlo Conti davvero non sa o non ricorda, e ogni volta è una sorpresa anche per lui scoprire di che colore era il toupé biondo della Carrà (ci sia permesso questo simbolismo). Insomma, grazie a lui, scopriamo che le riflessioni di Umberto Eco sull’everyman, l’uomo comune al potere televisivo, si riferivano a Mike solo in via come metaforica, segnalando più che altro la profezia paracristiana che vede solo in Carlo Conti la sua più completa e totale incarnazione. Non ci aspettiamo che sia crudelmente crocifisso, ma almeno seriamente ridimensionato.

giovedì 13 dicembre 2007

La fine mesta di Chi l’ha visto? Puro voyeurismo senza glamour




(in edicola il 12 dicembre 2007)

Più il tempo passa è più l’antichissimo (e gloriosissimo) programma di Rai Tre del lunedì sera, Chi l’ha visto?, rischia di avvicinarsi a una tristissima versione in chiave cronaca nera di certe sezioni di Studio Aperto. Sempre più i suoi servizi, con quelle le voci fuori campo concitate, e soprattutto quelle immagini di repertorio di questo o quello scomparso ormai celebre, riproposte in rulli che sembrano infiniti, rasentano un voyeurismo non già delle solite donne nude, ma di donne purtroppo rapite, adescate, che per forma, e per contenuti, anche se svuotati della componente glamour che giustifica in fondo - anche secondo numerosi detti popolari - ricorda molto quello che tira così tanto su Italia Uno. Per carità, certo si continua a fare il proprio dovere: la sostanza, nel corso della maggior parte del metraggio del programma, è mantenuta: si ospitano appelli di familiari e amici di persone scomparse, che non troverebbero mai la stessa visibilità se solo affissi a una bacheca universitaria, o affidati al soffio incostante e deformante del passaparola. Ma la forma, che spesso è uno specchio di gran parte della sostanza stessa, sta cambiano, e ci sembra in peggio.

Non siamo ancora al punto di godere di una versione televisiva di Cronaca Vera , come succede sul web con la molto cliccata “CronacaQui.it”, e i suoi titoloni indignati o solo incazzati (o, ancora più semplicemente, ispirati a un generico ma non meno corroborante: “Assassini, la pagherete”, postato in home page ogni due o tre giorni, per sicurezza). Però è abbastanza evidente e significativo come la formula dello storico programma della televisione utile italiana (insieme a Mi manda Rai Tre, Report e poco altro, se per utile non si intende anche certa parte della programmazione notturna di molte tv locali), sta modificando lentamente e geneticamente la sua formula più classica. Quella per cui la sintesi, la freddezza ma anche la precisione con cui si lanciavano gli appelli, era anche una forma di garanzia per tante più famiglie che si rivolgevano al programma, che ormai ospita soprattutto “notizie” di scomparsi che, per quanto gravi e documentati siano i loro casi, non hanno certo bisogno anche di Chi l’ha visto?, oltre che dei tg e dei talk di mezza penisola, e il lavoro delle forze dell’ordine, per avere più chance di essere finalmente risolti.

A volte la coincidenza con i modi e i tempi dei tipici talk-show a caccia di ascolti facili del pomeriggio, è pressoché totale. Sulla piccola Denise Pipitone, ad esempio, ancora lunedì – e sì, dopo le ultime novità sulle possibile responsabilità della sua sparizione, ma anche dopo tre anni di ricerche certamente svolte con la massima professionalità dagli organi competenti – collage di foto interminabili, e commento audio che suona di colonne di nera di profonda provincia. “La piccola Denise Pipitone non aveva ancora compiuto quattro anni. Con quel suo visetto buffo e dolce, quel giorno, su questo marciapiede davanti a casa sua, si ritrovò improvvisamente sola al mondo. Fu proprio allora che qualcuno la prese per mano, e la portò via per sempre”.
Forse non solo gli spettatori potenziali segnalatori di notizie e avvistamenti (come metafora del loro ruolo, appunti, di spettatori), ma naturalmente gli stessi familiari delle altre vittime, ma soprattutto la stessa Denise, se ancora c’è speranza di ritrovarla, meriterebbero tutti un trattamente diverso.

mercoledì 12 dicembre 2007

Cocaina



(in edicola l'11 dicembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Mentre il resto del paese continua a chiedersi quanto esattamente faccia schifo o faccia ridere l’immagine del corpo di Giuliano Ferrara nudo in una vasca da bagno, (con un gruppo di dirigenti del centrodestra che gliene vivacizzano la permanenza all’interno), Rai Tre, domenica, propone uno di quei documentari che riescono a lasciare il segno sulla realtà, quantomeno in una misura proporzionale a quella con cui ne sono ispirati: Cocaina.Il fatto che Maurizio Gasparri si sia scagliato da subito - dopo il solo promo - contro la messa in onda del documentario (ritenendolo un incitamento all’uso della stessa droga del titolo) forse ci aiuta ulteriormente a capire quanto potessero essere sterili, a loro volta, le polemiche di Mastella contro Il capo dei capi, la fiction biografica su Totò Riina. Questo docu-film è stato realizzato dagli stessi autori di Residence Bastoggi - Roberto Burchielli e Mauro Parissone - uno dei capitoli più visti e poi citati della loro serie “Il mestiere di vivere”, cui pure appartiene Cocaina, e che sta cambiando il modo di guardare a certi aspetti della vita, in televisione - anche perché, prima, non li si guardava affatto.

In Cocaina si racconta l’evoluzione di questa sostanza dagli infiniti soprannomi d’affezione (bamba, neve, semplicemente coca), da droga dei ricchi che hanno raggiunto il successo a quella del ceto medio, e anche medio basso, fino al molto basso, che non lo raggiungerà mai. E, soprattutto, senza neanche per una scena incappare nell’effetto Iene – o, peggio, quello “Lucignolo” di Studio Aperto - perché non indulgerebbe mai e poi mai al divertimento, alla battuta, all’estetica del facile eroe negativo da cui sono invece decisamente rovinati i servizi in notturna di Italia 1, e da cui Gasparri dovrebbe essere decisamente più preoccupato.
Neanche il linguaggio colorito dei poliziotti della Questura di Milano protagonisti del documentario, o le loro espressioni da gente che conosce sì il dramma dei tossici, ma ci convive al punto da considerarlo un qualunque obiettivo di una giornata di lavoro, riescono a rendere piacevole in senso televisivo alcun agguato a spacciatori, alcun inseguimento di “pali” o grossi clienti. A meno che non si consideri piacevole in senso televisivo qualcosa che assomiglia a una delle peggiori puntate della nostra realtà.

E, come quando riflettiamo sui peggiori programmi televisivi, di quelli che davvero rendono impossibile una serata a chi sia costretto da un parente stretto a vederli (chi ha più colpa, la Ventura o mia sorella che la guarda?) – e non parliamo solo di reality di serie B – la domanda più alta che ci pone il lavoro di Burchielli e Parissone resta una sola: se sia nato prima lo spacciatore, più o meno organizzato o il tossico, già disperato. Solo che, a differenza, di molti altri casi simili, Cocaina una soluzione ce la dà, grazie alla facce degli uni o degli altri, o alle loro voci, quando la loro paura costringe i montatori a nascondere il volto di un cliente o di un “venditore”: entrambe le categorie sono vittime dello stesso identico modo, e non solo perché spesso una transizione o una trasversalità fra le due è facile come tirare la prima striscia da “addetto ai lavori”.

martedì 11 dicembre 2007

Benigni e l’ardua impresa di “microfonare Dante”



(in edicola l'8 dicembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Rai Uno prosegue nel suo entusiasmo per il rapporto fra Dante e Benigni. Dopo l’Inferno in diretta della settimana scorsa, si riparte dal Paradiso registrato (e per altre undici puntate). Il fatto che sotto Natale 2007 si proponga uno spettacolo di piazza che risale all’estate 2006, e con lo spolvero di pubblicità e comunicati delle grandi occasioni, è naturalmente solo un simbolo di quanto eterno possa essere il messaggio di Dante, anche se attualizzato in differita. Del resto, la regia di Stefano Vicario è molto ricca di interesse, lo si deve ammettere; e chiunque anche abbia preso parte allo show originale di piazza Santa Croce a Firenze, non potrà dire di non essere di fronte a un prodotto in parte nuovo, rivedendolo in televisione. “Microfonare Dante” è la parola d’ordine. Solo l’ouverture di dissolvenze fra la statua di Dante davanti alla chiesa, immobile, e il microfono ancora silenzioso, mentre Benigni si prepara dietro le quinte, è una riflessione sulla regia televisiva di evento live svolta egregiamente, di cui, senza il primo canale della Rai, avremmo goduto magari solo fra qualche mese ancora, in qualche freddo cofanetto dvd (e forse addirittura senza interruzioni pubblicitarie fra sigla e controsigla).

Ma il pubblico, che è almeno coprotagonista dell’evento, e affolla il centro della piazza e degli spalti ai lati, di tutto questo non sa, e aspetta solo che Benigni possa benigneggiare al più presto e nella maniera più intensa e indolore possibile per le sue articolazioni.
Appena l’attore fuoriesce dalle quinte in un impeto di zompi e sguardi furtivi con la coda dell’occhio, allo stesso pubblico, lo show si può dire iniziato. Ma ecco un altro dei motivi per cui è degno di essere visto anche in televisione, tutto questo: Benigni, dopo aver inizialmente benigneggiato, si rintana dietro un pezzo di quinta, che all’esterno è rossa, e dietro, come noi grazie a Vicario solo possiamo vedere, è nera. Così come vivace e benigno pare fuori, ma dentro è solo un professionista al lavoro, mentre attende gli applausi che lo ritireranno presto sulla scena, è come se lo vedessimo per come è davvero: un attore che fa il suo mestiere, che non zompetta anche nella vita; che non vede l’ora di tornarsene a casa e rimettere al suo posto per qualche giorno la sua irrefrenabile vivacità, Dante e soprattutto il suo zompare.

Resta comunque memorabile la parabola di Vergaio e del suo filosofo Marione, che Benigni racconta meglio che in ogni altra occasione pubblica proprio qui, non senza il ricordo di banconi di bar di casa del Popolo che a Beningi ricorderanno sì, soprattutto, la sua gioventù toscana, ma a noi il primo fiorire del suo cinema con “Berlinguer ti voglio bene”. La faccenda linguistica dell’alternarsi della “c” aspirata o no, secondo il numero di caffè da ordinare a quel bancone, vale la pena di assistere al one-man-show dantista, altrimenti così “già visto” che deve essere sembrato registrato anche a chi lo vedeva live in piazza. E tutto ciò resta anche uno dei pochissimi modi - non obbligati da alcuna scuola - di pensare al Paradiso di Dante Alighieri, all’amore immateriale e al timore per la troppa bellezza.

lunedì 10 dicembre 2007

Blob con la variante Berlusconi Veltroni

(in edicola il 7 dicembre 2007, anticipazione e commenti qui)

C’è chi dice che si potrebbe sapere tutto di ciò che accade nella televisione italiana guardando solo un programma: Blob, con un “aiutino” supplementare da parte della Vita in diretta, quando realmente corrono mala tempora, o c’è un reality inguardabile in corso, su Rai Uno. Quell’uomo della strada avrebbe certo la sua parte di ragione, stremato dal gioco di specchi del palinsesto nazionale, in cui le cose esistono e le azioni avvengono non più, solo, se sono trasmesse; ma soltanto se sono trasmesse, e ritrasmesse in una versione opposta alla prima, e il più possibile deforme e gesticolante.

Una nuova, memorabile puntata del programma ideato da Enrico Grezzi, gli viene incontro, indagando sulla necessaria doppiezza costitutiva di ogni entità televisibile: obbligatoriamente scomposta in sé e il suo opposto, perfino più rozzo o maleducato. Come i Duellanti di Conrad si odiano, si combattono, ma in fin dei conti si ringraziano sempre, l’un l’altro, di esistere, perché se non fossero tutti e due al mondo, non lo saprebbe nessuno che faccia avrebbero, e come la pensassero sull’omicidio di Meredith o sul welfare. Ad esempio, gli ospiti dei talk-show sono scelti così, e vanno sempre in coppie di contrari: la modella e il vecchio parlamentare di lungo corso. Anche nei reality: ti picchio, ergo sum.

La Tv, se ci fate caso, è un’immensa puntata di Forum, non sempre con Rita Dalla Chiesa. Solo, infinitamente meno interessante.
Ci sono dei duetti che rappresentano dialettiche fulgide come gli amori sacri e quelli profani della pittura: Veltroni e Berlusconi, ad esempio. Che, sì, vengono fatti nascere da un orribile corpo a due teste di qualche alieno di un film di fantascienza (scena di apertura) ma poi si separano completamente, e sanno vagare per metà della puntata di Blob in programmi, location, piazze diverse, per quanto rappresentino due facce della stessa moneta, antica come la politica, ma all’occorrenza nuova, come la terza repubblica: l’estremista moderato, e il moderato estremista.

Ci sono altri personaggi, invece, così tragici che presentano in un solo corpo e in una sola mente contorta, uno di quei duelli, e non solo perché hanno due cognomi: come don Gianni Baget Bozzo. Blob ci fa soffermare sull’ultima, bellissima puntata di 8 e mezzo di Ferrara, in cui il sacerdote è ripreso mentre lotta come posseduto da una lingua non sua, che interrompe il fluire altrimenti limpidissimo dei suoi pensieri, come se il demonio che, certo, possiede il suo avversario, nell’altro riquadro del suo collegamento, si fosse divertito un po’ anche dalle sue parti, facendolo parlare - per qualche minuto di calo estremo degli ascolti - in una lingua sconosciuta anche a Massimo Cacciari, che se la ride da Venezia.

Ma il vero capolavoro è un altro momento, del Blob di mercoledì. La massaia della tipica pubblicità di detersivo per colorati, che si lamenta che i due colori della maglia a righe del suo figliolo: “a furia di lava, lava, era un bel capo; ma, ora, il nero, è un grigio topo, e l’altro colore, si incupisce”. Non avevamo ancora sentito dire una cosa così intelligente e veritiera al tempo stesso sulla situazione attuale del nostro tentativo nazionale di bipolarismo.

venerdì 7 dicembre 2007

Come invecchiano bene le Desperate Housewives



(in edicola il 6 dicembre 2007, video e commenti qui)

Solo il fatto che la sigla di testa – che forse, è il capolavoro del suo genere - non sia cambiata di un fotogramma, è un motivo già di per sé abbastanza valido per guardare anche la terza stagione di Desperate Housewives, che è ripresa da martedì, in seconda serata, su Rai Due. Per tacere del fatto che le casalinghe in questione sono sì disperate, ma nel loro accasciamento morale riescono pur sempre ad essere uno dei seriali televisivi che invecchia meglio al mondo, dopo che anche Heroes, in seconda battuta, ci ha abbandonato qualitativamente (ma speriamo nella sua, di terza stagione). Ogni serie come si deve ha nella sua “opening sequence” un manifesto che contiene spesso in nuce la maggior parte dei temi che tratterà. Come un prologo letterario, solo che, invece di essere scorto solo una volta, all’inizio dell’esperienza della lettura, nei serial viene ripetuto ad ogni visione. Fino a che, nella sua apparentemente immobile ripetizione all’inizio di ogni puntata, in realtà quel minuto e mezzo si modula e modifica di volta in volta secondo quello che dalla puntata appena cominciata ci aspettiamo, e quello che di tutte le altre ricordiamo - o nel caso di serial crudi come Dexter, vorremmo dimenticare.

Proprio Dexter (in onda il giovedì sera su Fox Crime) ha uno dei pochi opening paragonabili per qualità e intensità a quello delle casalinghe. Dexter Morgan, il protagonista, passa metà della sua vita a cacciare assassini per vie legali, essendo perito ematologo per la squadra omicidi della Polizia di Miami. L’altra metà, a cacciare quelli che la stessa polizia non può o non vuole cacciare, con metodi del tutto illegali e spirito d’iniziativa da perfetto serial killer, a sua volta. Ferma restando la sua innata passione per il sangue. Allora, i primi, geniali fotogrammi della sigla, a spiegarlo quasi in tutto: è a letto, dorme ancora, e una zanzara si posa sul suo braccio. Si sveglia, e ha qualche istante per fissare, come ammirato, come un collega che riconosca del talento naturale in qualcuno che, inizialmente aveva sottovalutato, per poi schiacciarla inesorabilmente con la mano. Il fatto che il nostro antieroe si gusti poi una bistecca semicruda di prima mattina, godendone come un Hannibal Lecter di bovini, è forse un’allusione meno sottile alla sua essenza, ma rende comunque perfettamente l’idea.

Il “manifesto” di Desperate Housewives è invece del tutto poetico. Colto, ma spesso comicamente, è una sequenza di parodie di fondamentali opere della storia dell’arte, che rappresentano la donna in momenti particolarmente convenzionali e codificati: Eva, Nefertari, una casalinga da manuale che maneggia la lattina di zuppa Campbell’s di Andy Warhol. Tutte sanno stupire, stravolgendo quelle convenzioni (proprio come del resto fanno le protagoniste del serial), e mostrarci tanto ciò che di violento ci può essere in qualcosa di apparentemente fragile, quanto di dolce e materno in qualcosa che pensavamo mascolinizzato per sempre. Così, Eva ha un bel porgere il frutto sbagliato ad Adamo: un pomo OGM di proporzioni colossali sta per cadere in testa al suo coniuge: spada di Damocle che ci invita tutti a toglierci le travi dagli occhi, senza cercare pagliuzze dietro le lenti a contatto di tante mogli immeritate. Oppure, una delle tante donne-fumetto piangenti e sofferenti di Roy Liechtenstein, qualche fotogramma più avanti, si prende la vendetta che in moltissime aspettavano: ci mostra che nela vignetta successiva, che Roy non dipinse, c’è un cazzotto molto ben assestato, e da lei verso di lui.

giovedì 6 dicembre 2007

Lost in caduta libera, la terza serie è la peggiore



(in edicola il 5 dicembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Lost è ripreso anche su Rai Due (dopo che Fox Italia, sul satellite, ne trasmette la terza stagione dal 1° di ottobre), e si è avverato tutto quello che ce ne era stato maldestramente anticipato – da siti, amici, giornalisti, o da gente che, pur essendo tutte e tre le cose contemporaneamente, trova comunque il tempo di “spoilerare” (tremendo anglismo per dire “rovinare sorprese riguardo a sviluppi di trame di cui si sa già quasi tutto comunque”) – privandoci dunque del piacere di scoprire da soli quanto questa edizione sia ancora peggiore della seconda. La pigra autoreferenzialità e il cieco manierismo, ormai, dominano un intreccio che, nella prima serie, aveva promesso tanto agli spettatori, anche in termini di un certo realismo. E aveva avuto un tale successo di ascolti che era stato visto e riconosciuto “esempio di perfetto realismo” perfino da spettatori sintonizzati sulle isole deserte più vicine a quella utilizzata per il set.

Oggi, tutto si ripete, pur complicandosi all’infinito, e il motivo per cui speriamo che lo stesso tutto finisca il prima possibile è diametralmente opposto a quello di qualche anno fa: non perché siamo curiosi, ma perché insofferenti. Dove nella prima gloriosa stagione ogni cosa era rigore e precisione, anche i misteri e il non-detto, oggi è solo incertezza tangibile non solo del pubblico, ma evidentemente anche degli sceneggiatori. Anche quello che avremmo dovuto indovinare o supporre era creato con la stessa accuratezza della storia, mentre si sviluppava, come se una contro-trama, fatta di reticenze e allusioni, potesse correre insieme a quella visibile (almeno, nell’immaginazione degli spettatori abbastanza medio-alti da non aspettare la puntata in cui Kate sarebbe misteriosamente apparsa con il seno rifatto, cosa che non è poi avvenuta concretamente).

La vecchia allegoria dell’umanità che si deve guardare tanto dagli apparentemente cattivi, quando dai chiaramente buoni (vecchia e affascinante almeno quanto le leggende popolari che ispirarono il librettista del Flauto Magico di Mozart) - perché gli ultimi saranno i primi, i buoni possono incattivirsi, e soprattutto non c’è più religione - forse non funziona più per Lost che, certo, avrà infranto molti schemi nel comporre una trama di serial (multi-narrazione, multi-livello), ma anche le pazienze di un pubblico che la venerava. Con l’esclusione, naturalmente, dei fan più hard-core: almeno tutti quelli che si fanno chiamare Losties nei vari forum web, in cui confutano il peggioramento della serie con argomentazioni fantasy, citando il riscaldamento globale o la fuga di cervelli dall’Italia. Sempre sexy i due maggiori beneficiari della serie, Matthew Fox ed Evangeline Lilly (Jake e Kate), gli unici del cast che siano riusciti a replicare con questa serie quello che normalmente si verifica per il concorrente medio delle varie edizioni dell’Isola dei Famosi: diventare una celebrità, venendo pagati per vivere su un’isola deserta fra colleghi che urlano e cameramen che li inseguono dappertutto.

mercoledì 5 dicembre 2007

Chef per un giorno, uno sfottò spontaneo del “reality trash”



(in edicola il 4 dicembre 2007)

Chef per un giorno (La7, domenica 20.30) è una trasmissione sulla cucina talmente spontanea dal punto di vista delle performance di ospiti e cast – per quanto così anacronisticamente corretta da quello linguistico - che ci riporta ad atmosfere televisive di diversi anni fa. Quando, quello che oggi sarà stato definito, agli inserzionisti, un reality su vip che, nonostante il successo, cucinano per scherzo, sarebbe stato semplicemente presentato al pubblico come un nuovo programma televisivo su come se la cavano ai fornelli Giobbe (molto bene), Patrizio Roversi, o Lella Costa. Senza nulla togliere, anzi, addizionando qualcosa, al realismo del tutto.
Una specie di sfottò – per qualità e dimensioni dell’autocompiacimento a riguardo – a quel tremendo reality (che questa definizione se la meritava tutta, invece) che andò in onda sulla Rai di qualche anno fa, che si intitolava “Il Ristorante” e che vide fra i suoi protagonisti Giucas Casella (personaggio televisivo padre neanche troppo naturale del trash magico, rivalutabile solo in parte tramite il nome del vero ristorante che ha poi aperto, dopo l’esperienza televisiva: “Sui carboni ardenti”, in onore ai suoi esperimenti fachiristici).

Anche se Chef per un giorno soffre principalmente di un difetto, che purtroppo spezza ogni volta che è possibile l’armonia e la semplicità che si crea dietro le doppie quinte teatrali e gastronomiche della cucina: i clienti invitati al ristorante in cui si serviranno le ricette preparate dall’ospite sono sempre selvaggiamente, drasticamente finti. Ognuno è tutto compreso nel solo ruolo assegnatogli: lo studente ma esigente; il pensionato d’oro ma illuminato; la minuscolo-borghese con marito con la grandeur facilissima a parole. Siamo lungi dai figuranti Rai (alcuni ereditari, da più generazioni, in uno dei cinque o sei più antichi del mondo che più rigorosamente si tramandano di figlio in figlio di buona donna): i veri pilastri su cui si poggia, ancora oggi, il 70% minimo del succo di ogni programma di successo o no: vivaci, imprevedibili, facce e movenze di diniego o di approvazione cui ci si può affezionare con una certa fiducia, per via della serialità della loro presenza assicurata certo da qualcuno di quei privilegi che tanto ci fanno rosicare quando leggiamo articoli di settimanale patinato sugli stipendi dei commessi parlamentari.

Eppure, con un po’ di sforzo in più dal punto di vista del casting dei figuranti, da questo arditissimo contrasto fra reality-ma-vero (la cucina) e la realtà-ma-fake (la sala) potrebbe generarsi, oltre naturalmente a una conferma della genuinità dei cosiddetti vip, anche un interessante, possibile manifesto della decadenza del genere del reality-show in senso lato. Ma forse i tempi non sono ancora maturi. O forse, ancora peggio, sono troppo decaduti perché si possa manifestare questo tipo di sensibilità. Il vero ingrediente segreto di questo programma resta dunque l’assenza di una reale ricetta, di qualsiasi schematismo o ripetizione (almeno nel rapporto coi vip presenti) che rovini l’appetito di intrattenimento cui il pubblico televisivo italiano deve pure avere lasciato qualche spazio nascosto nel proprio stomaco, straformato dal continuo fagocitare. Tutto il resto sono avanzi di cui ancora non sappiamo che farcene.

martedì 4 dicembre 2007

Miracolo a Rai Uno: per una sera è tornato il Roberto di un tempo



(in edicola l'1 dicembre 2007, anticipazione e note qui)

Quando Roberto Benigni è in televisione, ed è particolarmente in serata (come è stato giovedì sera su Rai Uno, nonostante l’avvio comodissimo contro Calderoli: come sparare su una crocerossina morta), può riuscirgli perfino di non farci rimpiangere ancora una volta il primo Benigni, cui, purtroppo o per fortuna, non ci ha mai abituato. A tratti, può essere capace persino di farci dimenticare i suoi ultimi due film, o di ricordarci com’era un tempo, senza cercare di essere come era, come parlava, come stava sulla scena, alle prime apparizioni televisive; e godere delle differenze e delle maturazioni, rispetto ad allora, come si dovrebbe fare con ogni artista ancora in vita che non sia incappato in due degli errori principali che fanno anche i peggiori geni o i massimi guitti: imborghesirsi, o ripetersi all’infinito. Cosa che a Benigni è successa troppe volte perché non la smettesse, a un certo punto.

Effettivamente, la differenza con le comparsate a Sanremo o da Fabio Fazio, la fanno dei piccoli dettagli, ma fondamentali. Ad esempio, dedicarsi al pubblico senza un conduttore di cui palpeggiare o comunque minacciare le parti basse - cosa che poteva avere una ragione stilistica vent’anni fa – e non perché quegli anni fossero particolarmente illuminati dal punto di vista della possibilità di maneggiare parti basse, ma perché Benigni ne aveva una trentina, di anni, allora. Oppure stupirci di come un comico nato possa essere in una sola sera e in una sola persona l’incarnazione di almeno due dei più celebri epurati Rai degli ultimi tempi: per non scomodare Enzo Biagi, almeno di Santoro e Luttazzi. Vale a dire farci ridere dell’attualità più flagrante, prendendola con filosofia, senza smettere di farci riflettere sulla comicità che è nell’attualità stessa, anche se la guardiamo con serietà. È dunque un opinionista e un satiro in uno, come forse riesce solo a pochi vignettisti italiani: Vincino, Vauro, Altan.

Giovedì Benigni non ha fatto ridere, insomma, perché parla un bel toscano pieno di parolacce, o perché sta sulla scena come una marionetta deformata dagli anni di utilizzo. Quando ha fatto ridere con la faccia, lo ha fatto perché lo doveva all’unione fra un testo ben scritto e pensato e un’espressione di esso misurata nel suo essere, comunque, fuori misura. Come un attore che non deve necessariamente farci sapere tutto quello che sa fare in una sola serata ma, concentrandosi su due o tre elementi (politica, politica, Dante) ci comunica tanto anche di quello che non sa, ma che riesce a farci immaginare. Quando ha fatto ridere con la testa, invece, lo ha fatto grazie alla stessa gravissima situazione in cui ci troviamo, socialmente e politicamente, come può fare solo un satiro riuscito: non piangendosi o piangendoci addosso (alla Beppe Grillo, per fare solo un nome e un cognome) ma deformando la realtà sotto il peso dell’opinione che se ne è fatta e del suo espressionismo recitativo, rendendo irresistibile anche un accento romanaccio imitato malissimo, dando vita sulla scena alle tante intercettazioni di questi ultimi mesi e giorni, in pochi minuti, come intere saghe di Porta a porta non erano riuscite a fare (forse anche perché le ultimissime raccontano qualcosa anche di Bruno Vespa). Eppure, abbiamo tanto sofferto per quel Pinocchio tremendo, al cinema, che per le prossime puntate, a dicembre, ci aspettiamo da Benigni ancora di più.

lunedì 3 dicembre 2007

Scorie, il dopo-reality più infelice di sempre



(in edicola il 30 novembre 2007)

“Scorie dell’Isola dei Famosi” è un dopo-reality che riesce decisamente male nel suo compito di promuovere la trasmissione della Ventura, di cui vorrebbe essere nient’altro che il programma critico-parassita benigno. Eppure è condotto da Nicola Savino, uno dei personaggi radiofonici (ma anche autore televisivo: fra i primi a firmare Le Iene) più prolifici e in voga, almeno fino a qualche mese fa, quando evidentemente decise di fare un passo più lungo delle gambe del suo collaboratore più stretto: Digei Angelo, e di darsi alla conduzione più concretamente. Dopo essere stato, per diverso tempo, l’Emanuela Folliero di Sky Cinema.
Di programmi-satellite di reality, come finta parodia a basso costo di una trasmissione di grande successo, che però sia fonte di coda di paglia qualitativa presso i dirigenti di rete, ne abbiamo visti e apprezzati parecchi, anche grazie a monumenti apripista di questo sottogenere come Mai dire Grande Fratello o le edizioni successive alla prima di veri, interi reality-show come La talpa e via dicendo.

Un programma così ha prima di tutto il compito di mimetizzarsi efficacemente nel palinsesto di riferimento, magari collocandosi su un canale diverso dello stesso network, e in altri giorni e orari rispetto al programma da mungere. In secondo luogo, il parassita benigno ed efficace trae la sua ragion d’essere nel fatto che deve intrattenere ed educare una categoria di pubblico che non vedrebbe mai il programma-vacca (ma non già perché non gli piacerebbe comunque molto vederlo, ma per motivi di obiezione di coscienza), e di giustificare così la sua successiva, probabile conversione al reality in questione attraverso la convinzione di contribuire, a sua volta, alla rovina dello stesso, attraverso il senso dell’umorismo che si convince di usare da par suo. In ultima analisi, un programma di questo sottogenere deve fare divertire moltissimo tutti gli altri spettatori, che non lo guardino né per crisi ideologiche né perché guardano già la vacca. Scorie di Nicola Savino non riesce in nessuno di questi tre obiettivi.

1) Perché viene trasmesso subito dopo l’Isola, dopo un lancio ufficiale da parte della stessa Ventura (e addirittura, nell’ultima puntata di questa stagione, mercoledì, lanciato anche dai suoi stessi autori e lavoranti vari, che si sono gettati all’inseguimento dell’Ape di DJ Francesco, recando dei cartelli alla Gabriele Paolini, ma più fastidiosi, recanti la scritta: “Dopo l’Isola guardate Scorie”). Quindi, niente mimetismo, niente doppiogiochismo: marchetta pura, e per giunta, cosa imperdonabile, a posteriori e a caldo.

2) Perché è evidente che con una collocazione del genere sarà guardato perlopiù da spettatori dell’Isola stessa, che non hanno alcun bisogno di essere indottrinati sulle qualità, o sulla mancanza di esse, di Simona Ventura o di ciascuno dei suoi opinionisti, dal momento che a stento riconoscono la figlia quattordicenne che torna a casa al termine di tutto ciò, senza aver avvertito, forte del doppio appuntamento della madre.

3) Perché non fa ridere affatto. A parte le risate fuori campo anni ottanta, di un pubblico spesso inquadrato, nonostante sia così evidente il fuori sincrono con quelle voci di chissà dove (e quando), che si sbellicano a spese della loro deontologia di figuranti. Perché divertire, per Digei Angelo, significa fingersi in collegamento via auricolare alla Boncompagni e Ambra, e suggerirle di maltrattare Cecchi Paone, mentre guardiamo un fuori onda forse addirittura non concordato. O al massimo giocare a fare la voce della coscienza di Cristiano Malgioglio, non solo imitandolo malissimo, ma soprattutto come se ne potesse realmente avere una.

venerdì 30 novembre 2007

Blob, il lato cubista della televisione



(in edicola il 29 novembre 2007, commenti qui)

Si sa che Blob (Rai Tre, ore 20 e 10), da sempre, ha il merito di mostrarci il lato cubista della televisione. Vale a dire quanto, cambiando l’ordine degli elementi – e soprattutto dei contesti – a disposizione, il risultato (il significato) cambi, eccome. Blob è la rivincita del video sulla libertà interpretativa che ha solo l’immagine fissa, apparentemente statica di una foto. Immersi nel senso di una foto, possiamo navigarci in che direzione vogliamo; anzi, lo creiamo noi il suo senso di percorrenza: andata e ritorno, quando puntiamo gli occhi sull’immagine, e quando li distogliamo. E’ come una nostra ripresa, con camera rigorosamente a mano, dell’oggetto che guardiamo. Non esiste altra immagine di quella che è compresa fra questi due momenti, ed è diversa non solo da soggetto a soggetto che la guarda, ma anche lo stesso soggetto farebbe fatica a riconoscere la stessa immagine, se la guardasse con sincerità, in momenti diversi della giornata o della vita.

Il video, invece, e soprattutto la televisione, è un’immagine del mondo, dell’esistenza o di Luisa Ranieri, che è stata già sottoposta ad una di queste osservazioni creative, ed è stata cristallizzata, catturata per sempre in un RVM o diretta che sia, ad uso di gente (il pubblico) che quella stessa visione non ha avuto. Questo, perché o quell’immagine – così interpretata – è particolarmente bella, e dunque meritevole di essere condivisa, oppure perché è particolarmente utile, e quindi degna di essere somministrata. Blob ha capito questo molti anni fa, e la sua azione quotidiana è di restituire alla libertà di un proprio personalissimo montaggio l’immagine televisiva, da immobilizzata, per quanto in movimento, che era. E, soprattutto, invita il suo pubblico affezionatissimo a fare altrettanto, magari in scala più piccola, attraverso quello strumento d’opinione, sempre sottovalutato, che è il videoregistratore. Detto questo, anche la puntata di martedì è stata magnifica.

Il parallelo fra Adriano Celentano ed Emilio Fede, magistrale. L’uno che si abbevera, mentre parla, l’altro che produce saliva, e pure parla, sono un ecosistema perfettamente autonomo dal punto di vista dei liquidi. Due modi di reinventare due generi televisivi (il varietà e il telegiornale) attraverso un simbolismo fittissimo di rimandi, di collegamenti a due idee: l’uno il proprio disco appena uscito, e l’altro il proprio cantante preferito. È come un’intervista doppia non autorizzata, un dialogo filosofico clandestino: cosa che tendono a instaurare la maggior parte degli stacchi fra un personaggio e l’altro, in Blob, ma questa volta con una perfidia e un’intelligenza ancora più flagranti. E mentre smonta e rimonta pezzi della nostra storia quotidiana, non c’è un momento in cui Blog non diminuisca e aumenti, al tempo stesso, il valore del lavorio continuo delle immagini sulla nostra coscienza e sulla nostra immaginazione. Nel riordinarle, in modo apparentemente contrario a quello proposto dai loro autori, e facendoci, d’improvviso, apparire così bizzarra o interessante una semplice intervista a Mario Borghezio, ci spiega con una precisione esemplare dove sbagliamo noi e cosa hanno indovinato tanti autori di televisione sbagliata, disonesta o solo brutta. Se basta cambiare colonna sonora a un discorso sgrammaticato per farlo sembrare solenne o irresistibilmente comico, basterebbe anche solo il tasto di un telecomando perché questo stesso rischio non si corra più.

giovedì 29 novembre 2007

L’onesto marchettone del Molleggiato nostro



(in edicola il 28 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Fra le cose che deve farsi perdonare il presente show di Adriano Celentano, dite pure che c’è, innanzitutto, la sigla-strip, in cui i vestiti della ragazza che vanno via si incendiano al contatto col suolo. Dite anche che Fabio Fazio, per quanto sia bravo, non è che poi sia David Letterman apparso sulla scena in persona, e che quindi la sorpresa di vederlo interloquire con Celentano non è che sia poi così stupefacente, come il suo modo di guardarsi attorno in cerca di “ohhhhh” vorrebbe far credere. Aggiungete che è tutto troppo lungo, e avrete forse elencato alcuni difetti, ma solo formali, di messa in opera, di un progetto altrimenti corretto nella sostanza e nella formula, che delegittimare gridando alla marchetta, come molto fanno, col 2008 alle porte, ci sembra francamente disonesto. Insomma siamo convinti che si possa parlare di questioni di gusto o di decoro, ma non certo di etica professionale (quale professione? L’interprete di canzoni, così soggetto a un mercato – quello musicale – in crisi di vendite e di ispirazione?).

Non dite dunque che la pratica dello spot monumentale all’ultimo disco in distribuzione – esteso alla durata di un intero programma in più puntate - sia codarda o, peggio, superata; soprattutto in tempi come questi, in cui la pubblicità è in soprattutto se è occulta, se è chiacchiera orchestrata in modo che sembri spontanea o, ancora, se è il classico redazionale di tg (che, del resto, c’è da dire che non mancherà mai ad Adriano, ma non è questo il punto). Nulla contro il marketing del passaparola, beninteso, se fatto a regola d’arte, ma neanche qualcosa contro quello più diretto e “spettacolare” del solenne marchettone, se intrattiene e non mente.
Di spontaneo, nella trasmissione di Rai Uno, dunque, c’è ben poco, ma non è affatto richiesto che ci sia qualcosa di naturale in uno show del genere. A parte la fiducia di una casa discografica nei confronti di un prodotto che ha realizzato, e il suo desiderio di investire anche in televisione, perché quel prodotto venga comprato dal maggior numero possibile di spettatori di Celentano.

“La situazione di mia sorella non è buona”, come la maggior parte delle fatiche televisive di Celentano, altro non è che questo: pubblicità di una certa qualità. Perché ad esempio, destruttura una canzone nella rappresentazione del suo paroliere (Mogol), dell’autore delle sue musiche e del suo interprete che dialogano prima della sua esecuzione, come nella figura di tre stati della materia (da esperimento scientifico), o tre età dell’uomo (più rinascimentale). Oppure perché Celentano canta bene.
C’è gente che la studia, la pubblicità televisiva, che ci scrive saggi fuorvianti o emozionanti; altri che la sottovalutano, o altri ancora che la venerano più del prodotto che proponga; gente che la guarda e compra, o che non la guarda e compra lo stesso. Celentano ha parlato del suo prodotto, ha più o meno interessato, venderà. Non dite che non ha fatto il suo dovere. Se per tutti gli altri non è stato un piacere, è tutta un’altra questione.

mercoledì 28 novembre 2007

Lucrezia Donna Detective, una fiction “differente”



(in edicola il 27 novembre 2007)

Le fiction poliziesche all’italiana, sulla falsissima riga di quelle all’americana, hanno da sempre, come per vocazione, il compito di mostrarci dialettiche superficiali e retoriche fra le parti d’azione e quelle, dietro le quinte, di umanità o mancata umanità delle forze dell’ordine in ballo. Gente che, nonostante nel lavoro sappia come inseguire più e più spacciatori, incastrare malavitosi e saltare le cene, poi, nella vita, si concede sorrisi e amori non corrisposti; è pasticciona nell’economia domestica; può divorziare nel primo episodio e poi starci male per stagioni. Donna detective (altre cinque domeniche, 21.30, Rai Uno) è differente. Ma non come la banca della pubblicità tormentone: è sul serio un’altra cosa. Sarà che Lucrezia Lante della Rovere è perfettamente in parte, come non succedeva da La carbonara; sarà che Flavio Montrucchio, pur presente nel cast, non ne è affatto il protagonista maschile (lo è il giovane vecchio Kaspar Capparoni); sarà semplicemente che il soggetto e la sceneggiatura sono stati composti da gente relativamente sopra la media cui ci ha abituato Rai Uno, negli ultimi tempi: di fatto questa la prima puntata di questa fiction è stata piuttosto originale, ma non forzata.

Lisa, l’ispettore protagonista, è una specie di Dexter rovesciato. Dexter è l’eroe/antieroe del serial americano omonimo, in cui questo personaggio (fra i massimi della categoria) passa metà del metraggio di ogni episodio, a sembrare un collaboratore della polizia normale, con amori, famiglia etc. E, per il resto, squarta persone come un qualunque serial killer d’alto livello, senza lasciare tracce, ma con il solo scopo di ripulire il mondo dalla spazzatura che lo stesso suo dipartimento non riesce a eliminare con metodi convenzionali. Il personaggio di Lucrezia, invece, trascorre tutto il tempo a disposizione a convincerci di essere una poliziotta del tutto fuori dal comune, e poi è una delle mamme di famiglia più credibili e “normali” dai tempi di Giulio Scarpati nel Medico in famiglia prima maniera. Scene clou i tragitti in macchina con i figli, quasi da “Caterina va in città” mutante in “L’ispettore torna in campagna”, chiudendo il cerchio, quotidiano, del trapasso da show-pistolettate a backstage-mangiate tutto. Ci si chiede, insomma, se sia più la paciosa vita rurale sulla tiburtina ad essere la fonte materiale di quello che accade, conseguentemente, in una sfera più metropolitana e rischiosa; oppure, viceversa, la città non sia una fonte di emozioni e di spettacolo per i bambini-pubblico tornati da scuola, che credono alla vita della mamma - che ha inseguito un furfante, prima di aprire loro lo sportello - come a una puntata nella puntata, e particolarmente avvincente, di un altro dei serial che non vedranno, perché messo all’indice da una genitrice del ramo.

Grande affiatamento coi bambini attori, soprattutto in quelle canzoncine (la vera novità) che sembreranno solo dettagli, a chi è avvezzo a chiedere “sostanza”, a una fiction, e poi spesso si ritrova in mano nient’altro che la solita comodissima cocciutaggine degli scrittori, che proprio non se la sentono di credere che il pubblico possa desiderare qualcosa di diverso. E invece, anche quelle scene, sono solo segno di cura e rispetto per ogni scena e ogni categoria di spettatore, in un prodotto italiano che davvero, per una volta, non mente sapendo di mentire quando, nel sito ufficiale, dichiara di essere esportabile e universale come “un serial americano”.

martedì 27 novembre 2007

Con Celebrity Death Match trionfa la parodia grossolana



(in edicola il 24 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Celebrity Death Match è uno show animato di Mtv che, dalla sua prima edizione ad oggi - che si è alla quinta stagione, e al decimo anno dalla prima messa in onda - non smette di peggiorare e di stupire per il fatto che un programma così povero di idee possa avere successo. Ogni puntata rappresenta degli incontri di wrestling mortale fra due o più pupazzetti che parodizzano delle star sopravvalutate nordamericane. Di norma, quando qualcosa di scritto tanto male ha tanto seguito, in televisione, si tratta quantomeno di donne concretamente in forma, e quasi mai fatte di plastilina. E meraviglia anche il fatto che si riesca a sfruttare tanto male un tema, come quello dell’iperviolenza animata grossolanamente a scopo di comicità, che altrove, e basti guardare una puntata dell’ottimo cartoon Happy Tree Friends (che abbiamo scoperto recentemente con un articolo su TvBlog di Francesca Camerino), riesce ancora a fare riflettere sulla vita o morire dalle risate, secondo i giorni e i metabolismi.

Ciò che si nota nell’edizione italiana è la buona qualità del doppiaggio, in particolare della voce del telecronista non pasticcione realizzata dall’immancabile Pietro Ubaldi, che riesce puntualmente nel difficile compito di non perdere la pazienza e mandare tutto a monte facendo la voce del pupazzo Uan di Bim Bum Bam. Le gag di quello pasticcione, detto Nick Diamond, invece, sono sempre talmente povere e infelici che una delle migliori è quella dell’ultima puntata, in cui perde il computer portatile e dichiara più e più volte di non averci niente di compromettente, dentro, arrossendo e tremando per l’imbarazzo, al punto che arriviamo a sperare che l’incontro successivo inizi presto. Uno dei personaggi più riusciti è invece il pubblico, che spesso interviene negli scontri sul ring perché innamorato di qualcuna delle concorrenti, cui richiede favori sessuali in cambio di aiuto concreto. E che spesso strappa un sorriso, soprattutto nella gestione della sua emotività, come quando gli spruzzi più alti e intensi di sangue, che scaturiscono dalle più oscure cavità di un duellante, non provocano lo stesso disgusto, nella facce tutte molto caratterizzate delle prime file, che invece suscita l’ascolto di una qualche dichiarazione d’amore o ammissione di essere incinta, da parte di Mischa Barton o equivalenti.

Qualche altra volta, sono armi non convenzionali a farci superare la soglia di un certa noia. Come i plafond di carte di credito che sono annunciati come risorsa segreta, talmente potente che immobilizzano l’avversario, e poi materialmente lo decapitano, se usate come stella ninja versione oro o platinum. Il punto è che questa serie vuole metaforizzare il tipico scontro fittizio dei talk-show di mezzo mondo, di quelli che contrappongono due politici, attori o opinionisti dal vago curriculum che magari nella vita si adorano – o, comunque, non si picchiano – e che poi sulla scena devono litigare per copione. Solo, farlo per dieci anni, sinceramente, è qualcosa che non ci sogneremmo di chiedere neanche a metafore di gran lunga migliori di questa, e non ci stiamo riferendo a roba sessuale e a Bruno Vespa.

sabato 24 novembre 2007

Evviva “Occhio alla spesa”, il best dell’infotainment



(in edicola il  23 novembre 2007)

Occhio alla spesa (Rai Uno alle ore 11, dal lunedì al venerdì) è molto più di un semplice modo di chiedere scusa ai telespettatori, da parte della televisione di Stato, per una colpa durata lunghi anni che, del resto, non ha commesso: “Ok, il prezzo è giusto”.
Che, per inciso, era infatti trasmesso dalla vecchia Fininvest, e trattava il tema del bellissimo programma di Alessandro Di Pietro (gli aspetti commerciali della merceologia) da una prospettiva completamente opposta: era un gioco a premi in cui non poteva capitare di meglio che vincere la merce che costasse di più, fra i brand sponsor che acconsentissero a esporle in quella vetrina, innovativa ma deformante. Occhio alla spesa, invece, è probabilmente il miglior programma del cosiddetto infotainment italiano (informazione unita ad intrattenimento), e riesce nella sua missione di attivare le coscienze in fatto di spese quotidiane – soprattutto alimentari – anche perché non c’è un siparietto comico (spesso figuranti d’alto bordo promossi per un giorno) o musicale (affidati a nientemeno che Tony Santagata) che poi non insegni qualcosa. E, viceversa, non c’è una scheda di approfondimento che non faccia prima il suo dovere, e subito dopo il piacere delle telespettatrici, quando il conduttore snocciola i valori percentuali della crescita o della diminuzione del prezzo di una certa qualità di lattuga o fungo raro: i momenti di massima perversione per i fan del programma.

Includendo anche dei piccoli giochi a premi in un’ora in video che, per altri versi, è giornalismo televisivo, e anche di ottimo livello, Di Pietro è riuscito a confezionare un format che, da cinque anni a questa parte è un piccolo culto, non solo di massaie di tutte le età ma, dato l’orario di messa in onda, anche di studenti dell’obbligo bloccati a casa da malanni, quanto di universitari in perfetta salute. Certo, almeno la prima parte del target di cui abbiamo parlato, le massaie, deve rasentare l’adorazione per un uomo così, in azione fra i banchi del mercato, con le mani in mezzo alla pasta ancora da stendere, eppure sempre perfettamente virile e telegenico. Uno che, del resto, non ha mai fatto compromessi nel nascondere o mostrare quanto gli piaccia accompagnare le donne a fare la spesa, e anche le due cose prese singolarmente. Ma anche il resto del pubblico non può fare a meno di trarre vantaggio dai suoi consigli, che toccano il loro culmine formale e contenutistico, nella rubrica dell’intervista “al prodotto”.

Il momento in cui la merce cui è dedicata la puntata (ieri la lattuga), posta su uno sgabello e sotto i riflettori, risponde alle domande di Alessandro doppiata dall’accento regionale della sua provenienza, ma solo nel caso che si tratta di un esemplare doc.
Altra forma del tutto innovativa di rapporto con le cose che compriamo, di solito a prezzo troppo alto, sono le corrispondenze via videofonino da vari mercati sparsi per la penisola. Affidate spesso a quegli studenti universitari che non riescono a restare a casa per l’ora del programma, ma del resto neanche a recarsi concretamente in facoltà, quelle interviste, pur orchestrate alla maniera della parodia del collegamento telegiornalistico classico, mostrano magagne e veri e proprio raggiri che avvengono sotto i nostri occhi ogni giorno. Bravo Di Pietro che non ha mai accettato abbastanza lusinghe, da parte di reality e talk-show, che avrebbero sicuramente molto giovato della sua presenza, ma nuociuto alla sua freschissima autorevolezza.

venerdì 23 novembre 2007

Generalista? No, Joost, una tv da fantascienza



(in edicola il 22 novembre 2007)

Mentre la televisione tradizionale è lasciata ai fasti della sua decadenza, simboleggiati molto efficacemente dalle orge del pomeriggio domenicale, due modi principali di riscoprirla muovono i primi passi, entrambi su internet. Da una parte, la net tv classica, prodotta con strumenti semplici, ma fruibile da tutti, con il solo tramite dello stesso programma che usiamo per visualizzare tutti gli altri siti. Produce programmi molto forti dal punto di vista dei contenuti, per forza di cose; “di parola”, più che d’azione o di effetto speciale. Sono condotti quasi esclusivamente in piccoli studi, da conduttori vicini alla radiofonia, nel bene e nel male (cioè: per la qualità dei testi, e per la relativa povertà delle immagini), e non programmano spot pubblicitari, se non quelli che sono presenti sulle pagine web che li ospitano. Di fatto, soprattutto per via delle basse spese di produzione che vi sono richieste, è stata la prima forma di televisione via internet realizzata anche in Italia. Dall’altra parte, affiorano esperimenti come quello di Joost, che invece hanno ben altre ambizioni, sia dal punto di vista delle sponsorizzazioni, che da quello di rapporti più favorevoli tra fumo e arrosto.

Innanzitutto, Joost è un programma per computer a sé stante, che va installato (e ne è disponibile una versione per pc e una per mac). L’aspetto è futuristico, molto accattivante e, per il momento, decisamente vanaglorioso. Si presenta facilmente come la tipica televisione del futuro, immaginata da tanti romanzi di fantascienza: dal punto di vista dei contenuti, un fusione anche abbastanza riuscita fra youtube e la tv on demand; da quello estetico, uno schermo grande come quello del nostro monitor (e cioè, ormai, anche più di quello del vecchio televisore), ma cliccabile, aggiornabile, interattiva a un livello decisamente più alto di quello promesso, e non mantenuto fin dai primordi, dal digitale terrestre. È un possibile palinsesto continuamente modificabile dall’utente, secondo associazioni di idee fra programmi, generi e colori dei loghi che li rappresentano (magari solo la prima volta). Ci si accorge presto, però, che questa non è - come la net tv, invece, già è - una vera alternativa alla televisione: è un nuovo modo di vedere la televisione cui, tutto sommato, siamo abituati. Anche perché i canali, proposti come le tipiche playlist cui ci hanno abituato i software musicali, rispecchiano molto, troppo fedelmente la situazione di un tipico palinsesto da abbonamento a tv satellitare. È solo un nuovo modo di organizzarli, di distribuirli, ma sempre troppi trailer, troppi documentari, troppi videoclip. E anche troppi spot.

Dove Joost eccelle, ed è quasi insostituibile (per via della effettiva qualità video che il sistema riesce a raggiungere) è il caso dei canali dedicati al vecchio cinema. Come “Silent Movie” o “The really terribile film channel”, che arrivano a proporre pellicole i cui diritti d’autore sono o decaduti o insignificanti, ma che non hanno perso affatto il loro merito di essere la gioia di estimatori e gente insana di tutto il mondo. Per quanto Joost non presenti ancora contenuti in italiano, è già abbondantemente dotato di pubblicità, fra un programma e l’altro, nella nostra lingua. Cosa che ci fa sperare che presto potremmo provare la piccola grande gioia non semplicemente di cambiare canale, alla loro vista, ma di gettare materialmente in un bel cestino, seppure virtuale, la faccia o l’icona dei conduttori che davvero non abbiamo mai potuto soffrire. Per il resto, speriamo che le net tv italiane, e soprattutto quelle che producono informazione indipendente, riescano presto ad aprirsi uno spazio nel menu che offre questa piccola, grande novità nel campo della comunicazione visiva.

giovedì 22 novembre 2007

Rino Gaetano, tocca a Minoli riparare i danni della fiction



(in edicola il 21 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

La puntata de La storia siamo noi dedicata a Rino Gaetano è come una ventata d’aria crotonese sulle malefatte poetiche della recente fiction - prodotta dalla Rai, sullo stesso cantautore - che tanto sapeva di corridoio romano e poco ventilato.
Per quanto l’ottimo Giovanni Minoli non possa chiaramente esentarsi non solo dal tessere l’elogio di “quello sforzo produttivo”, ma addirittura dal chiamarne in causa uno dei principali responsabili (dirigente Rai fiction competente) – che ne attesta la qualità come un venditore di cibo avariato, quando l’abbiamo già digerito – la trasmissione ha almeno il merito di togliersi subito il pensiero di fare i conti con la fiction, e prendere il più presto possibile a intervistare gli amici e i parenti eccezionali che ebbe quello strano caso musicale. Su tutto, risaltano i racconti della sorella Anna, una donna talmente riuscita che, certamente, se Gaetano avesse potuto produrre di più, almeno una canzone indimenticabile gliel’avrebbe consegnata, magari in un attimo di particolare prossimità con la realtà. È una sorta di Gabriella Ferri al contrario, il suo Sancho Panza fintobiondo e sereno, un connettore con le cose terrene, eppure abbastanza “personaggio”, anche lei, da ricordargli magari, un tempo, qualcosa che anche della poesia gli era sfuggita.

E, oggi, senza di lui, somigliare tanto a una di quelle piccole star degli anni ’70 che si sono dignitosamente ritirate dalle scene, e sono le sagge del loro circolo di persone straordinariamente comuni. È sinceramente dispiaciuta per il trattamento che ha ricevuto suo fratello nella fiction, e si augura che pochi possano ricordarlo così come ne è dipinto: alcolizzato fino allo stordimento quotidiano, nel cliché dell’artista che per essere tale deve essere completamente travisato anche dalla maggior parte dei suoi fan, pur di essere o politicizzato o comunque categorizzato. Saranno anche dettagli, ma per lei sono le cose che contano di più, almeno perché, è chiaro, che di vivere sulla considerazione dei critici di oggi delle canzoni del fratello, non è che ne abbia tutta questa voglia. E, anche per la dolcissima persona di Amelia Conte, la promessa sposa del cantante, è forse un bene che i vari interventi siano solo benissimo montati fra di loro, e non avvengano tutti in studio. Perché alcune parole di Francesco Sardella (il dirigente di cui sopra) su come “tutte le storie sono fatte per essere interpretata e travisate”, forse la sorella di Rino le avrebbe prese con una discreta dose di incazzatura, ma Amelia se ne sarebbe più visibilmente e giustamente solo addolorata.

Momento culminante del breve documentario di Minoli l’intervista a Paolo Rossi che, nell’occasione del Sanremo 2007, cantò un brano inedito di Gaetano. Episodio che è stato fin’ora, insieme all’ormai famoso doppio cd con copertina “warholiana”, culto di teenager e giovani e ringiovaniti di tutte le età, uno dei migliori modi di ricordare questo cantante, così ribelle anche al solo successo che non eseguì mai un solo playback televisivo di sua canzone (e La storia siamo noi ce lo ricorda, proponendoci spezzoni di quasi ogni sua comparsata tv) senza bofonchiare qualcosa fuori sincrono, giocare con un suo vero cane, e deridere già allora anche questo bel documentario, anche e soprattutto perché lo esalta come un maestro del suo tempo e non solo.

mercoledì 21 novembre 2007

Una stella in mezzo al trash Giletti andrebbe rivalutato



(in edicola il 20 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Il cuore profondo della Domenica Trash all’italiana è illuminato dal coraggio di una stella, che brilla solo un’oretta: l’Arena di Massimo Giletti (su Rai Uno, nel primo pomeriggio). È un talk-show decisamente sottovalutato, per il garbo con cui è condotto, il contesto voltastomaco in cui è situato, ma soprattutto per le evidenti difficoltà di reagire alle piccole, grandi vessazioni, in termini di scelta degli ospiti, che evidentemente un destino crudele, degli autori in rivolta o egli stesso alzatosi male, impongono al conduttore di fronteggiare. Massimo sa di avere a disposizione un parterre da Leggenda degli uomini straordinari (il film in cui Dorian Gray in persona aiuta Tom Sawyer a tenere a bada Mr. Hyde, con l’aiuto del Capitano Nemo, che è vivo e lotta insieme a loro). Cioè: un nutrito gruppo di persone che dovrebbero essere solo frutto della fantasia, e invece sono lì, e non c’entrano niente fra di loro. Ma mai che si dia per vinto, Giletti, neanche quando è fra un’intervista e una pausa pubblicitaria che si rammenta, guardandosi le spalle, che Klaus Davi ancora non ha parlato.

La puntata di questa domenica, ad esempio, è dedicata al dramma di cronaca sportiva di domenica scorsa, e agli scontri fra tifoserie e poliziotti che ne sono conseguiti. Giampiero Mughini siede al suo posto, torto in una posizione da crampo passivo, perché ne procurerebbe anche a chi solo lo guardasse con attenzione: posizionato allo stesso modo da anni, forte di un qualche voto - che deve aver fatto a chissà quale divinità femminile degli anni sessanta - di non confidare mai a nessuno di quando gli scappi di andare al bagno, e men che meno in diretta televisiva, giustamente. Come tutti gli altri, all’occorrenza di un’inquadratura, esegue il suo tipico gesto: per lui, è un’indecisa smorfia di dolore e di piacere malcelato insieme, levando gli occhi al cielo, e la mente al negozietto vintage che lo rimetterà in contatto con la realtà, lunedì pomeriggio, dopo questo incubo, tuttavia sopportabile, di finire il plafond di pelo sullo stomaco. Si dimena leggermente, e poi torna in posizione d’attesa, come in un palleggiare a tennis fra lui e la coscienza di giornalista e scrittore che non si accontenta.

Alba Parietti è differente. Non può muoversi, e cerca di parlare il meno possibile, perché ha una scollatura fino all’ombelico, quasi cinquant’anni, e nessuna voglia di ricordarci anche questa volta che è una donna “ottimista e di sinistra”, come nell’immortale canzone di Lucio Dalla. Suor Paola ascolta in religioso silenzio. La nostra relativa abitudine a tutto questo, finisce per rendere la ciliegina sulla torta della situazione, non l’enorme pinguino dorato, che chiude il cerchio accanto a una suora tifosa della Lazio, ma il fatto che si definisca Paola Ferrari uno dei volti più importanti del giornalismo sportivo italiano. Paola è collegata in esterna, ed è credibile e preparata come sempre: è proprio questo il punto. Fra tutto questo, solo Massimo è ancora attaccato alla realtà. Solo un superficiale direbbe, a questo punto: “annamo bene”. Perché è nella sua persona il diaframma forse sottile, ma ancora abbastanza efficace, fra rapporto con la terra ed elogio della follia, che permette a tutti di essere trattati con la stessa condiscendenza, come se davvero si fosse in una trasmissione normale, o se tutti potessero esprimere opinioni loro, e non quelle del ruolo da presepe mediatico cui li ha inchiodati per sempre una caratteristica somatica o un cenno biografico.

lunedì 19 novembre 2007

Scrubs, medici al rovescio



(in edicola il 17 novembre 2007 - anticipazione e commenti qui)

La sit-com Scrubs, su Mtv il giovedì alle 21 (e su Fox Italia il sabato pomeriggio), continua a far danni non più solo nei confronti di E.R. (“medici in prima linea”), di cui era la parodia originale e volontaria (“medici ai primi ferri”), ma anche di tutte le altre serie come House e Grey’s Anatomy che, col tempo, della formula e del successo dei casi di E.R. stesso sono diventate parodia purtroppo del tutto involontaria. Come in E.R. si rappresentava la rapidità e l’efficienza di medici già nell’età del pronto soccorso – e nella stagione degli interventi – in Scrubs i protagonisti sono medici inesperti all’epoca della specializzazione, nel vivo della tradizione delle varie scuole di polizia e di pompierato. Le stesse che, al cinema e in tv, avvicinano gli spettatori a mondi apparentemente lontani, che di norma, invece che divertirli, li manganellano o, bene che vada, gli sfondano le porte di casa. È singolare, qui, l’adozione della camera singola, nelle riprese, e non multipla, come è di norma in una serie di questo tipo. Dunque, tutto il montaggio prende le mosse da quanto ha ripreso una sola unità, in ordine non sequenziale.

Questo è il risvolto tecnico di una delle caratteristiche stilistiche più originali della serie: le vicende sono presentate dal punto di vista del protagonista, J.D. Dorian, che in sostanza le “monta” secondo criteri personalissimi e spesso mescolando realtà, sue idee e sensazioni e il “daydreaming” che l’ha reso un personaggio di culto. Scrubs mette in scena il mondo clinico cui ci ha abituato la televisione in modo del tutto capovolto, e dunque, spesso, molto più aderente alla realtà. I medici possono contendersi effetti personali di pazienti passati a miglior vita, fino a che uno di essi, e per giunta quello dotato delle migliori quantità di vestaglie di seta, non riemerge da un’interminabile seduta alla toilette, che l’aveva momentaneamente dato per spacciato o morto presunto. L’unico non-medico protagonista, l’inserviente Janitor, ottiene facilmente la complicità di malati anche gravi, per scherzi che opera contro il personale medico più serioso e indaffarato, in un vero e proprio simbolo dell’azione di Scrubs contro Meredith Grey.

Per fare un esempio, realizza telecomandi che simulino il suono delle macchine quando registrano un encefalogramma piatto, allarmando un professore sovrappeso. Che, però, risulta molto più allarmato quando, voltatosi di spalle, a burla compresa, ascolta lo stesso telecomando eseguire la tipica suoneria di camion della nettezza urbana in azione. Il tutto senza quasi mai apparire di cattivo gusto, ma spesso come un “memento mori” per noi e per molte serie rivali. Dunque, ci ricorda quanto siamo noi transitori su questo mondo, strappandoci un sorriso sul tema della morte e della malattia, che un attimo prima erano tabù, o avevamo solo voluto scordare. E, al tempo stesso, quanto riescono ad essere banali e insipide le altre serie quando, pur entrando nel dettaglio medico fino al massimo del realismo anatomico consentito all’ora di cena, ci mostrano tanto poco di noi stessi, e di come concretamente la possiamo pensare riguardo ai camici e ai pigiami che popolano gli ospedali.

sabato 17 novembre 2007

Heroes, la storia magnifica di un insuccesso solo italiano



(in edicola il 16 novembre 2007 - anticipazione e commenti qui)

Heroes è giunto all’ultima puntata della prima stagione doppiata male, ed è ormai tempo di considerarlo, probabilmente, il serial più interessante dai tempi delle primissime puntate di Lost. L’insuccesso di ascolti di questa altissima serie fantascientifica è stato un fenomeno tutto italiano che, d’altro canto, ha avuto due risvolti positivi, uno solo sociologico e uno socioculturale. Da una parte, costringendo i capi spirituali di Italia Uno prima a interromperne, e poi cambiarne drasticamente l’orario di programmazione, di modo che passasse da domenica in prime time al mercoledì in seconda serata, ha reso possibile l’uscita pre-lunedì dei molti appassionatissimi che avevano smesso di andare in sala giochi, pur di non perdere una puntata delle avventure di Niki Sanders e Peter Petrelli. Dall’altra, ha costretto i suddetti appassionatissimi, una volta minacciata e poi attuata la sospensione della messa in onda, a sfoderare tutto l’inglese scolastico che avevano nel cassetto, turarsi la coscienza e scaricare da Pirate Bay le puntate rimanenti. Fino alla fine della prima stagione e oltre, verso nuovi confini: le prime sette della seconda già trasmesse negli Usa.

Dire che questo sia avvenuto in parte per venire incontro alla facoltà mentali degli spettatori medi italiani, non è solo riduttivo (rispetto ai meriti della serie, che sono notevolissimi, e valicano con facilità anche i limiti poetici e tematici che di solito sono posti ad una serie fantascientifica), ma è anche impreciso: è avvenuto esclusivamente per venire incontro a quelle stesse facoltà mentali, che consentono all’Isola dei Famosi di non essere abbandonata dalle telecamere, e lasciata divorare da creature marine mostruose e insorte, con tutti i suoi abitanti, inclusi quelli eliminati. Dal punto di vista del significato (le bellissime immagini cui ci ha abituato parlano relativamente da sole), Heroes è eccezionale perché umanizza e razionalizza una lunga tradizione di fumetti di basso livello – e di pellicole tratte da fumetti di infimo livello – in cui i cosiddetti superpoteri erano solo armi straordinarie a disposizione di qualcuno di sfortunato nella vita, in attesa di rifarsi nella fiction. Un clichè ripetuto centinaia di volte, in una sorta di revanscismo para-cristiano dei deboli e secchioni sui fashion e normo-dotati (giacché, in quell’ottica, i secchioni sono solo o sottosviluppati o volano).

Heroes, invece, parla di gente straordinaria, sì: supereroi, persone che leggono nel pensiero, rigenerano loro arti e saltano la staccionata senza l’olio Cuore. Ma il punto, la novità, è che ci si chiede – e ci si dà una risposta, nel corso delle puntate – da dove quei poteri provengano. E questa risposta solo a un livello – dantescamente parlando – letterale che viene comunicata dai fatti: vale a dire, un esperimento di ingegneria genetica che ha modificato le facoltà fisiche e mentali dei nostri eroi. In realtà, basta salire di un livello di lettura, e ci rendiamo conto che niente è dato per caso ad essi. Come un destino metaforico ha fatto sì che, ad esempio, Claire Bennet fosse una studentessa apparentemente fragile, che può guarire da ogni ferita fisica. Hiro Nakamura è il classico colletto bianco che indosserà il kimono d’oro, ma con che psicologismo il suo dono è quello di andare avanti e indietro a piacimento nello spazio e nel tempo, quando ha passato la prima parte della sua “carriera” fra i divisori di un ufficio grigissimo. È un ricco gioco di rimandi e significati, che rende Heroes è una delle più belle parabole contemporanee sul talento e la gestione di esso; sull’importanza dei singoli nel destino di un gruppo; sulla verità che non sempre sta dalla parte con cui crediamo di stare noi (e questo lo scriviamo perché anche noi, dal canto nostro, abbiamo scaricato un po’ troppe puntate).

venerdì 16 novembre 2007

Bombay, il programma "impegnato"



(in edicola il 15 novembre 2007)

Il nuovo programma di Gianni Boncompagni non è solo la vendetta, servita ancora tiepida, di Ambra Angiolini. In realtà, Bombay è probabilmente il programma più “impegnato” della televisione italiana, e non solo non lo sa e non lo vuole sapere ma, se pure lo sapesse, non ci terrebbe neanche un po’ a farlo sapere in giro. È vero che l’Angiolini, di fatto, è tornata a lavorare col suo vecchio scopritore, e non più da pupazza radiocomandata, come ai tempi di Non è la Rai, controllata com’era dalla distanza di una cabina di regia apparentemente invisibile, ma onnisciente e onnipresente. In Bombay, oggi, proprio lei, quel simbolo riuscitissimo della televisione sbagliata (solo per posa e per copione, bella senz’anima; anzi, peggio: bella con l’anima di un settantenne) torna al fianco di Boncompagni proprio al posto di comando, che però, nel frattempo, è diventato lo studio stesso in cui è ambientata la trasmissione. Il backstage di un film o di uno show, di solito, ci dimostra o quanto è difficile realizzare quel prodotto, o gli errori che sono stati commessi nel realizzarlo. E un backstage incompiuto o fallimentare che diventi show, si sa, è ormai un sottogenere anch’esso, cinematografico e televisivo: basti pensare ad “Amici di Maria De Filippi”.

Ma questa volta, in Bombay, si ha il coraggio di andare oltre, e di dimostrare attraverso l’improvvisazione totale - condotta ad arte da un piccolo grande genio che non può perdere quasi nulla - quanto può apparire facile mettere su un programma Tv, e quanto è difficile comunicarvi realmente qualcosa, come nella migliore tradizione di un certo teatro dell’assurdo. Aggiornato ai tempi in cui solo le promesse non mantenute contano davvero, mentre i sogni si realizzano tutti e subito sullo schermo di un videogioco, o quello di un cellulare ad alta risoluzione. E, dunque, ospitare Ignazio La Russa che si finge barbiere, senza che alcun vero barbiere si sia trovato, disposto a fingersi Ignazio La Russa, e via così, fino a Sabelli Fioretti che farebbe il padreterno, e tenta di portare un ordine fra tutti quanti, vestito di una tunica bianca su un trono dorato.

È un ritorno alla scoperta, anche solo tecnica, prima ancora che contenutistica, di uno strumento, come la telecamera, che ha detto talmente tanto, concludendo talmente poco, che pare, almeno agli occhi di Boncompagni, non avere altro presente che questo: tornare a gioie semplici, al piacere dell’idea stessa di trasmettersi, di trasferirsi magicamente e irresponsabilmente nelle case dei soliti ignoti, o per qualche istante nel loro cervello, talmente usurato dall’abitudine al peggio, che solo Tinto Brass vestito da suora alla Paolo Villaggio (con vele felliniane), può rianimare con un bocca a bocca osceno, pur tenendo un enorme cubano fra le labbra. In Bombay il niente (i politici nonsensical, attaccati più a un nome falso che a un’opinione) e il suo contrario (la fisicità flagrante delle giovani e delle ballerine, che provan e riprovano un tango che non sarà mai realmente ballato) giocano a rimpiattino con i ritmi, le pause, le noie e i piaceri televisivi cui ci siamo avvezzi. E il bello è che tutto questo non è affatto un parodiare, un capovolgere la verità, in nome di una risata che raramente arriva (e non solo per le battute infelici, ma anche per quelle riuscitissime: come nella migliore tradizione dei comici impegnati) ma, ahinoi, la verità stessa.

giovedì 15 novembre 2007

Exit, se Ilaria D’Amico è l’unica uscita di sicurezza



(in edicola il 14 novembre 2007)

Lunedì, accattivante puntata di Exit – il programma di Ilaria D’Amico dedicato a Ilaria D’Amico – sui temi della vecchia crisi dell’università e il nuovo fiorire della prostituzione. Davvero molto ben pensata l’accoppiata, come del resto la presenza in studio di rappresentanti di entrambi di questi due mondi. Che, da sempre, si studiano, si osservano, spesso si scambiano saperi e trucchi, e trovano del resto nell’intelligente ma bella Ilaria una moderatrice perfettamente in parte. La soluzione ai due problemi (cali di prestazioni di professori e studenti, ed iperlavoro delle passeggiatrici), anche se fra le righe, sarebbe è la più semplice, naturalmente: quella, appunto, di scambiarsi le competenze: usare un marketing decisamente più aggressivo per promuovere i corsi di laurea, da una parte; e perdere clienti in lungaggini burocratiche e demotivazione del personale, dall’altra. Ma il bello della trasmissione è che Ilaria ci fa arrivare solo con grande senso della suspense a questo assunto fondamentale, così carico di significati per il futuro del nostro paese, tanto dal punto di vista del controllo delle nascite, quanto da quello della riduzione della fuga di cervelli.

Fatti alla mano, Exit – Uscita di sicurezza (su la7 ogni settimana), vanta fra i migliori rvm dei talk-show d’informazione italiani, e la scenografia più cervellotica e incomprensibile, in questo caso, anche andando a paragonarlo con alcuni dei quiz del tardo pomeriggio. Fra i servizi, stavolta colpisce soprattutto quello che comincia dall’aula magna della Facoltà di Fisica della Sapienza, e finisce, con grande senso delle proporzioni, nel gabinetto di Mussi, ministro della Ricerca, idealmente traslato nello studio del programma. Non prima di alcune formidabili dissolvenze incrociate, che lo vedono comparire qua e là fra gli scranni occupati, e sorridere come un mega-bidello molto paterno alle urla e agli slogan degli studenti. E davvero niente male anche la trattazione in stile “Iene”, ma più giornalistiche e meno arrapate, del secondo tema: il mercato del sesso. Tema solo leggermente meno scabroso di quello della compravendita di ammissioni a medicina. Il momento più alto spiritualmente di questa parte della trasmissione è senza dubbio quando Stefania Prestigiacomo afferma, testualmente: “Una volta le tenevano con le catene, oggi le picchiano: è sempre una condizione di schiavitù”. E non basta l’onestà intellettuale di Cinzia Dato a risollevare il livello, a questo punto.

Sulla scenografia, infine, come dicevamo, non siamo molto sicuri. Dovrebbe in qualche modo rappresentare una fabbrica simbolica, intricata di macchinari e gente del pubblico come prigioniera, sempre molto simbolicamente. Purtroppo, alcuni tralicci dell’elettricità (speriamo, altrettanto simbolici), non risultano molto d’aiuto nella comprensione di questo gioco quasi escheriano-borgesiano, fra spazi interni ed esterni concatenati o, meglio, incasinati. Allora, in tanto mistero e buio, vogliamo semplicemente credere che dopo tutto questo mistero, come al termine di uno di quei tunnel che annunciano una qualche vita oltre la vita terrena, ci aspetti l’unica uscita di sicurezza su cui possiamo davvero contare: Ilaria D’Amico stessa, vestita di un rosso che la fascia come una di quelle caramelle che annunciano, già dalla confezione, il piacere che avremo nell’assaporarle, solo al termine di tanto patire per trovarle sullo scaffale giusto.