mercoledì 31 ottobre 2007

Le piacevoli invasioni di Daria la sgobbona

(in edicola il 30 ottobre 2007)

Daria Bignardi, se non andiamo errati, da almeno tre anni fa le migliori interviste televisive del momento, che sono un modello di equilibrio. Ad esempio, se lei fosse anche solo parecchio più fisicata, finirebbe presto per sconfinare nella categoria Ilaria D’Amico. Ma non lo è. Certo, se fosse stata ancora più letterata, forse non l’avreste scambiata per Philippe Daverio, ma la cosa avrebbe comunque complicato le trattative segrete che portarono all’intervista a Barbara Berlusconi. Le Invasioni barbariche (la7, il venerdì, 21.30), si mantengono così sempre piacevoli, ma significative. Il fatto è che Daria ha dalla sua la fortuna di non essere altro che la versione televisiva di una rara varietà di compagna di classe, ora in disuso, ma piuttosto diffusa fino a qualche vita fa: la sgobbona fattibile. Una varietà che presenta, rispetto agli altri esemplari della sua specie, dei chiari vantaggi che spesso le permangono nella vita. Sono belle quanto intelligenti. E chiariamo che con ciò non facciamo alcun riferimento casuale alla celeberrima battuta che Vittorio Sgarbi dedicò a Rosy Bindi.

Quelle compagne sono intoccabili. Dai maschi non-studianti, niente richieste di versioni o suggerimenti: troppo carina per correre il correre di puntare sul cavallo sbagliato, in quelle occasioni, in cui un verbo in più può fare la differenza. Ma nemmeno proposte dai belloni: perché non abbastanza Ilaria D’Amico, e perché troppo colta. In certi momenti, si sa, sono i verbi in meno a contare. Dei rapporti con le femmine, inutile dire. È anche per questo che oggi la Bignardi trascorre felicemente questa vita da mediana, fra la sua via al giornalismo e la vera tv, cioè quella falsa. Al contrario di tante presenze televisive, le luci di studio non scivolano sul suo corpo, perché irreale o ideale; ma ci si fermano con una certa decisione, e disegnano un ritratto degli ospiti che ha di fronte, come specchiati in lei, di domanda in domanda, più riuscito di quello che gli ospiti stessi sappiano dare di sé. Le sue interviste sono quasi tutte interviste doppie malcelate, giacché Daria ha il potere di dare sempre anche una sua risposta ad ogni domanda che pone, e non le riesce affatto male di farlo perfettamente di nascosto: con uno sguardo, un cenno, un’altra domanda che non avrà seguito.

Ha diviso il suo programma in due parti, ma non troppo: perché si alternino e lavino le mani l’una all’altra. Prima un’intervista monografica, spesso interessantissima. Che ci sia Veltroni o Pierfrancesco Favino, sempre la stessa confidenza studiatamente finto-spontanea, che però le deve venire molto naturale, ed è efficacissima con tutti. Poi un mini-talk, e si ricomincia. Non sempre i secondi sono all’altezza delle prime, ma servono a ricordarci quanto lo show sarebbe noioso se fosse solo interessante. La scenografia è apparentemente semplice, come una delle case che quelle compagne di classe si fanno poi arredare. Ma in realtà è studiatissima: tutto deve sembrare fatto da qualcun altro, anche se loro hanno preparato tutto fino all’ultimo raviolo. È una scena attraente ma fredda, che si sa fare angusta, se proprio messi alle strette da una domanda giusta al momento giusto, ma mai infastiditi fino al nervosismo, fino a non rispondere, o far rispondere solo la conduttrice.

Venerdì, dopo Anna Finocchiaro, ha suonato l’orchestra di piazza Vittorio. L’una è stata un capolavoro di integrità, gli altri un abbozzo di multietnicità. Anna che non faceva una piega, nemmeno a chiederle per la terza volta se non avrebbe voluto fare il ministro dell’attuale governo. Piazza Vittorio che faceva acqua, coi suoi orchestrali stereotipati da pubblicità di Oliviero Toscani, in ritardo di vent’anni. Eppure Daria stava in mezzo e dirigeva niente male anche loro, con la sua bacchetta non magica, ma potente come quella di un apprendista stregone che, per una volta, ha davvero studiato.

lunedì 29 ottobre 2007

Il realismo di Grey’s Anatomy fa di Dr. House una favoletta

Giovedì sera gran dittico di puntate per Grey’s Anatomy. Il medical-drama, alla sua terza stagione in onda su Italia 1, è ormai da tempo ben oltre il suo più importante merito storico. E non intendiamo con questo merito il fatto che il titolo della serie sia in verità un apprezzamento nei confronti del fisico della sua protagonista. Ma averci fatto comprendere con molti esempi pratici che non importa che mestiere tu faccia e quante vite tu possa salvare o, soprattutto, non salvare in una puntata: avrai sempre tutto il tempo e l’umore necessari per avere una vita sentimentale appagante almeno quanto quella sessuale: cioè, quasi per niente. È questo il punto di realismo che renderà per sempre il Dr. House una favoletta per infermiere, e neanche sotto esame, al confronto con Grey’s. E non le tanto millantate migliori scene chirurgiche, o le diagnosi verosimili di mali realmente esistenti.

Questa terza serie, difatti, è molto incentrata anche sulle storie dei malati, rispetto alle precedenti, con buona pace delle ascoltatrici più affezionate, che una volta scoperto del matrimonio del dottor Shepherd (il capo spirituale dell’ospedale in cui la serie è ambientata, e che nel frattempo, si sa, aveva intrapreso una relazione pure con Meredith, la protagonista), lo hanno subito considerato un segreto di Pulcinella, minimizzando, ma ne vogliono ancora, e non smettono di cercare nuove fedi, al dito di ogni singola comparsa che mostri di non contargliela giusta (mentre, magari, il povero interprete è solo raccomandato o alle prime armi). Il cardiotoracico Burke, dunque, prima di chiedere la mano della dottoressa Cristina davanti a un maratoneta disidratato (perché non si possa poi dire che sia un cardiotoracico senza cuore), potrà ospitare quanti dinner party vorrà nei suoi appartamenti: non ci sarà invito che tenga. In “Great expectations” (meno dickensianamente, in italiano, “Aspettative”), nessuno potrà rubare la scena a una delle più toccanti rappresentazioni della realtà Amish che ci siano date, dai tempi del Testimone con Harrison Ford e Kelly McGillis nel ruolo di una pazza.

Purtroppo, potremo godere della cosa solo una volta superato l’imbarazzo che, ammettiamolo, ha colto una parte del pubblico italiano nel vedere che una ragazza Amish potesse trovarsi in un ospedale (e per giunta nei pressi di un modernissimo monorotaia), perché aveva inizialmente ricordato che Amish che fosse un modo esotico di dire testimoni di Geova, e dunque che non potessero farsi curare normalmente, e tantomeno in televisione. La ragazza in questione finisce per decidere di tornare a casa per i suoi ultimi giorni, rinunciando per sempre al supporto della sua migliore amica, bandita dalla comunità di cui anche lei faceva parte, per il fatto di essere stata battezzata. Naturalmente, è a questo punto che Gorge O’Malley chiede a sua volta la mano di quella che sarebbe la sua collega Callie Torres, se anch’egli avesse passato l’esame. Ancora più drammatico il secondo dei due episodi di giovedì, uno dei più intensi: “Desideri e speranze”. In cui, da una parte, la sfera privata e ormai, assetata di gossip, in una serie che è al terzo anno, arriva a coincidere quanto mai con quella clinica e impegnata, in due punti: con il ricovero della madre di Meredith, purtroppo malata di Alzheimer, e con il contagio di tutti i medici che conosciamo per via di sangue infetto.

Dall’altra, la tensione è stemperata da un padre di famiglia che si presenta in reparto con la figlioletta e un pacco di tampax, chiedendo alla dottoressa Izzie di mostrargli come si usino. E dalla convinzione che ci facciamo, una volta per tutte, del fatto che Gregory House non sarà del tutto malasanità, ma sia puro fantasy rispetto a Meredith Grey.

sabato 27 ottobre 2007

La festa italiana della crudele Caterina

(in edicola il 26 ottobre 2007)

Dopo l’abitudine che abbiamo fatto ai pomeriggi di Rai Uno, il talk-show Festa Italiana, condotto dalla più brava bella donna in televisione, Caterina Balivo, è una piacevolissima sorpresa di crudeltà subdola e sottopelle. Sfruttando un format molto simile a quello del programma che segue, La vita in diretta, chi scrive e chi conduce questo programma, è riuscito a dirigerlo verso uno spirito molto diverso dall’originale, quasi antitetico, o addirittura a sfottere Cucuzza stesso. Sia grazie a una gestione degli spazi e dei tempi in studio del tutto reinterpretata, sia per mezzo di una stesura e un montaggio dei servizi in esterna sempre sopra le righe, e soprattutto spietati.

La sua vera forza: l’apparente aderenza ai solco tracciato da Cucuzza. Uno si aspetta un pezzo pusillanime come al solito: battesimi di provincia con nonne sopra i novanta che non smettono di tenersi aggiornate e ballare; nuovi appartamenti su più livelli di missitalie adottate da “giovani imprenditori”; briefing su Loredana Lecciso; ospiti in studio riveriti, e poi pugnalati alle spalle.
E invece no. Innanzitutto (puntata di ieri), se proprio si ha un Pino Insegno in studio, e questi, forse per l’abitudine a satireggiare, si lancia in complimenti a Marta Flavi, Caterina non ci pensa due volte a non ascoltarli neanche, e lancia serenissima il suo servizio sulle star italiane meno modificate fisicamente dal corso del tempo. E già prima crudeltà, ma semplice, piana, senza compromessi o scuse non richieste.

Michele, se proprio avesse dovuto fare altrettanto, avrebbe, come minimo, fatto a sua volta un mezzo complimento alla Flavi, salvo poi sghignazzare fuori campo, come solo lui sa fare, per tutta la durata del servizio. Servizio che, del resto, sarebbe andato in onda esclusivamente per un particolare rancore verso l’ospite da parte di un qualche autore svegliatosi, per una volta, con il piede giusto, e dunque in crisi di coscienza nei confronti della civiltà o del popolo tutto. E cosa manda in onda la nostra Caterina in quel servizio? Rifattone. Rifattone complete, dalla testa ai piedi. Non contenta, ci monta dentro Nancy Brilli stessa, ma non solo. Prima cosa: Nancy Brilli realmente giovane che bacia un ex; poi, la voce fuori campo ne pronuncia chiaramente l’età; ancora, la frase che pone per sempre Festa italiana fra i nostri culti personali: “molto opportunamente, Nancy Brilli ha scelto come compagno il chirurgo plastico Roy De Vita”.

Non basta ancora, e non bastano le nostre parole a descrivere la perfidia, quindi citiamo letteralmente: “dopo due matrimoni e altrettanti divorzi la ricetta di Nanvy è semplice: godersi al massimo quello che si ha”. E primissimo piano del fortunatissimo Roy De Vita. Visto così, se non ne sapessimo altro, e cioè che non è vero, parrebbe il lavoro coraggioso di autori allontanati o rifiutati in partenza dalla Vita in diretta, che poi fossero riusciti a trovare un’altra via per far danni, forse ridotta nella visibilità, ma certamente più libera dal solito marchettismo malissimo celato, o dal semplice disprezzo del pubblico. Che ci offrono un prodotto intelligente senza per questo essere snob o condotto da Giuliano Ferrara. Complimenti a Caterina Balivo e agli autori di uno dei pochi motivi che siano dati, alle due del pomeriggio, di non dormire o di non lavorare.

giovedì 25 ottobre 2007

Improbabile gente di mare. Flirt e spari di rudi costieri

(in edicola il 24 ottobre 2007)

Gente di mare è ricominciata, e con essa la voglia del pubblico di osservare da vicino esemplari di Guardia costiera nella stagione degli amori e delle sparatorie, che sono entrambe aperte tutto l’anno. Certo, dobbiamo ammettere quanto sia grande la perizia tecnica con cui è realizzata la maggior parte degli inseguimenti, in navigazione, ogni volta che i nostri eroi scoprono dei trasgressori a minacciare le loro acque. O gli altrettanto temerari approcci alle colleghe che quegli uomini sanno eseguire, spesso, sempre in navigazione. Anzi, è molto affascinante vedere come queste due componenti tematiche della fiction dialoghino serratamente fra di loro, e più è stata realistica e spettacolare l’una, tanto più ci si concederà poi, nelle ore di licenza poetica. Però, resta il dubbio che la televisione stia un po’ esagerando con le serie sulle forze dell’ordine. Almeno nel caso dei carabinieri, c’erano decenni di barzellette pesanti da espiare, per l’opinione pubblica. La polizia, allora, non poteva essere da meno, ed eccola, da Nebbie e delitti a Distretto. Ma quando si arriverà a realizzare una fiction sul corteggiamento nei forestali, o sulla vita segreta della protezione civile, sarà il caso di cominciare a preoccuparsi.

Per fortuna, nel caso del martedì sera di Rai Uno, un intreccio saldissimo dal punto di vista strettamente drammatico (vedi rapimenti al Circomare) riesce a bilanciarsi sempre cogli amorazzi, i tradimenti, le gravidanze simulate e i conseguenti parti acquatici evitati. È così che anche gli spettatori meno esigenti o più legati ai primi anni ottanta, vinceranno la tentazione di reintitolare, in cuor loro, questa seconda stagione: “Gente di mare 2 - un anno dopo” (alla Vanzina; contaminandola, di conseguenza, con un genere cinematografico più caro ad essi che a dei rudi costieri). Una tentazione, del resto, forte quanto eroici sono gli sforzi sul set dei due (o uno) attori più bravi di appassionarci anche ai lati meno sentimentali del loro mestiere quotidiano. E di ricordarci di puntata in puntata che per quanto possano operare sulla costa alla moda della loro regione (fino a prova contraria, diranno i filo-jonici) sono pur sempre un gruppo di guardacoste calabresi.

Ad esempio, Angelo Sammarco, (lo stesso Lorenzo Crespi di Carabinieri, ma anche quello dei Buchi Neri di Pappi Corsicato), è il Mitch Buchannon della situazione: un Baywatch formato scafo: bello, muscoloso, carismatico, innamoratissimo di una bellona con cui dividere ufficio e branda, ma con un’intera navetta da gestire, al posto del mitico salvagente californiano del collega, quello a forma di supposta arancione. E questo mescolare il dovere con il piacere trova la sua consacrazione nei casi in cui un buono si innamora di un cattivo, o viceversa, mentre gli ottimi continuano a combattere senza tregua almeno i pessimi. Succede così al comandante protempore Terrasini di invaghirsi della figlia del capo ‘ndrangheta Amitrano, e al fratello di lei, Toni, l’erede designato, di non poter più fare a meno della naivetè di quella specie di piccola Flo interpretata dall’ex miss Italia Francesca Chillemi. Alla naturalezza con cui l’una riesce a sembrare il più possibile selvatica, corrispondono le tremende difficoltà con cui Toni il malavitoso rappresenta la civiltà, giungendo sull’isola da cui la Chillemi non si separa mai nientemeno che griffatissimo e da Tropea. Anche nell’ultima puntata trasmessa, notevolissima come al solito l’interpretazione del grande caratterista Frank Crudele, nel ruolo della tipica guardia costiera italoamericana di stanza sul Tirreno.

mercoledì 24 ottobre 2007

Ma la vera televisione oggi si trova su Internet

(in edicola il 24 ottobre 2007)

La net Tv – vale a dire la tv prodotta e distribuita per internet e su internet, cioè da chiunque e per chiunque – esiste solo da qualche anno nel mondo, e dunque da poco più di qualche giorno pure in Italia, che già rischia di diventare semplicemente quello che potrebbe tornare ad essere la televisione, se fosse libera dalle perversioni statistiche di strumenti come l’Auditel, e quelle organizzative di manager ereditari o comunque ereditati. Non diciamo che per questa forma di comunicazione sarebbe pure il caso di essere la televisione del futuro, perché in teoria dovremmo esserci già da un pezzo, e invece non lo siamo lo stesso; ma almeno quella di oggi.

Qualcuno si sta accorgendo che questa forma di trasmissione di notizie e di idee su come trasmettere delle notizie, potrebbe mandare in onda una rivoluzione ancora più radicale di quella rappresentata dai blog rispetto alla stampa tradizionale, semplicemente perché – per quanto innovativa soprattutto nella distribuzione – somiglia infinitamente di più, rispetto ai blog, al medium cui vorrebbe affiancarsi e che, per certi versi, potrebbe un po’ sostituire.

Il blog, difatti, ebbe e ha ancora qualche difficoltà ad affermarsi come strumento di comunicazione autorevole o credibile (quando non recensisce cellulari o schede madri) anche perché niente è ancora più autorevole o credibile della parola scritta, e soprattutto scritta su carta. Cosa che è forse ancora giusta, dal momento che la carta ha pur sempre degli innegabili vantaggi a doppio taglio: a fronte di una certa staticità, responsabilizza più di un pagina web su cui possiamo scrivere e riscrivere come in infiniti post-scriptum di una stessa email. Ma un video, che ci appaia come una visione celeste, dall’alto di un plasma appeso alla parete meglio intonacata, o dal basso di un monitor senza cristalli liquidi, nel buio della nostra cameretta, resta sempre un video. E il fatto che ai programmi della net Tv possiamo accedere al di là dai tempi stringenti di un palinsesto classico, ma alle ore che vogliamo e nell’ordine che vogliamo, aiuta ancora di più. Per rendersi conto di quale sia lo stato di questo genere di comunicazione oggi, in Italia, non c’è niente di meglio che dare uno sguardo al suo esempio di maggior successo: n3tv (http://www.n3tv.tv). Creata da Tommaso Tessarolo, è sempre visibile in diretta o in replica continua, sfruttando la piattaforma sperimentale Mogulus, e presenta una programmazione generalista, che va dal seguito talk Politica 2.0 (venerdì sera, condotto da Emiliano Germani) allo spassoso Fallo da dietro, dedicato al calcio.

Si può sperare, dunque, a qualche condizione: che si lasci alla net Tv il tempo e il modo di rodarsi dal punto di vista tecnico, nella qualità video (insieme la quantità e la qualità dell’internet a banda larga, in Italia); e da quello dei contenuti, se riuscirà a sopravvivere all’effetto “reality-show” – e per di più autoprodotti, e pressoché privi di ex-stripteuse – che sta generando sulle prime, come del resto fu anche per i blog. Ma gli sponsor e le partnership del caso già emergente di n3tv ci fanno sperare non in un oscuramento di interi canali rivali, ma almeno nella creazione di strumenti sempre più efficaci per ignorarli (pubblicità efficace dei contenuti migliori, indicizzazione dei canali che non trattino lo spacchettamento dei nuovi iPod).

Se tutto va bene, un giorno sarò come avere una di quelle scatole nere dell’Auditel, in funzione su ogni “televisore” che trasmetta immagini. Solo, molto meno taroccabili, lasciando ai canali tutto il diritto di realizzare programmi o palinsesti interi di pessima qualità, a patto poi di scomparire nell’oblio delle ultime pagine di risultati su Google, senza troppa pietà o remissione dei peccati. E, d’altra parte, il dovere di diventare in pochi giorni un riferimento irrinunciabile per chiunque voglia rendersi conto in diretta di quello che sta succedendo nella testa di una persona intelligente che ci dice quello che pensa, mostrandocelo pure.

martedì 23 ottobre 2007

Brutto, insipido e codardo Guerra e pace de noantri

(in edicola il 23 ottobre 2007)

Come ama dire Ettore Bernabei di tutte le fiction Rai brutte che richiedono più di un paio di mesi per essere realizzate, Guerra e pace non è una fiction, è un film per la tv. Un film per la tv insipido e codardo come pochissimi altri, ma che gode di un respiro tanto internazionale e di una profondità di ambientazione che – sebbene realmente sia stato girato a San Pietroburgo – la sensazione è che potrebbe essere stato collocato più o meno ovunque, da qualche sceneggiatore (ancora) postmoderno: dalla provincia di Terni, un giorno in cui le acciaierie fossero chiuse per miracolo, a uno qualunque degli Stati Uniti, tranne la California, perché lì ci sono molte più russe. L’ultima cosa che vogliamo accada a questo ultimo ritrovato del bignami televisivo (su Rai Uno in quattro puntate, a partire da domenica scorsa) è che diventi presto un altro di quei vestiti nuovi dell’imperatore. Una di quelle cose sì palesemente inconsistenti, quando non del tutto inesistenti, ma di cui non si può parlare male in pubblico, in primo luogo perché si è speso troppo per realizzarle, e in secondo luogo perché l’abbiamo speso in parte pure noi, proprio come i sudditi di quel sovrano nella fiaba.

Per questo ne parliamo male subito (fin troppo male, forse: un po’ per compensare l’insania di poi), finché certe ferite sono ancora aperte, nella speranza che qualcuno possa credere alle nostre parole almeno oggi, prima di aver visto, ad esempio, le scenografie o i costumi della terza puntata, o essersi persuaso di quanto possa stare bene Alessio Boni morente sul campo di Austerlitz.
Dopo la Baronessa di Carini, un’altra tremenda fiction, dunque, ci fa riflettere su quanto realmente i nostri produttori televisivi debbano sottovalutare non solo gli attori e i registi che tengono in vita, ma anche quel pubblico che – nonostante tutto – sostenta loro. Anche Laa-Laa, la femmina dei Teletubbies, in particolare quando smette i panni di maschiaccia, è una Natasha più conflittuale della pur brava e falsa androgina Clémence Poésy, che la interpreta in questo classico “for dummies”. È evidente che il consiglio ultimo di chi ha voluto – certo: fortemente, come si dice in questi casi – questo lavoro, al regista Robert Dornhelm (quello della grande mini serie su Anne Frank), deve essere stato qualcosa di non lontano da: “devo capirlo anche io”.

A palazzo Bezukhov perfino l’ottimo Toni Bertorelli, pur imparruccato e vestito alla perfezione, sembra perfettamente a casa sua, e cioè a molti chilometri dalla Russia. Disastroso più o meno ovunque Alessio Boni (Andrej), ma in particolar modo nella scena della morte per parto di sua moglie Lisa, quando, dopo un’ora e più di dialoghi facilitati al punto dall’esprimersi a gesti, e minimalismo anche delle espressioni, si lancia in un urlo spaventoso da coniuge mucciniano in difficoltà, soffocato a stento dal sempre perfido Malcolm McDowell, che tanto quella morte si era augurato. Risulta in parte praticamente solo l’interprete tedesco di Pierre Bezukhov: sarà un piacere vedere la sua evoluzione da macchietta goffissima, sempre nascosto da troppi strati di capi d’abbigliamento, al personaggio multilivello che ne verrà fuori.

Solo degli italiani dei nostri tempi – con in mano tanto materiale umano, tecnico (regista di prim’ordine, musiche di candidato all’Oscar, e la semidivina Brenda Blethyn nel ruolo dell’Achrosímowa) e, nel caso di Violante Placido e Ana Caterina Morariu, ci verrebbe da dire quasi: spirituale – avrebbero potuto tirare fuori una noia e una pochezza così feroci da uno dei massimi soggetti pronti per il cinema di tutti i tempi. Sarebbe il caso di spiegare a qualche dirigente televisivo che realmente popolare non significa quasi mai banale, e che la semplicità è d’oro solo se fa rima con una certa sincerità.

lunedì 22 ottobre 2007

Nell'inferno di Artù Gnocchi scherza sul serio

(in edicola il 20 ottobre 2007)

Da quando le grandezze di Alda D’Eusanio e della sua originaria caricatura del talk-show non vengono capite più neanche per sbaglio – e l’Antipatico di Belpietro, per quanto sia perfettamente compreso, tuttavia viene visto – una trasmissione italiana può solo scherzare sul serio, come licitandolo in partenza, perché possa ottenere il permesso di far sogghignare su quanto poco ci sia da ridere sul resto dei palinsesti, o in generale della serata. E allora – per quanto si debba aggiungere: per fortuna – è a programmi come Artù di Gene Gnocchi che resta il compito di dover fare la parodia della televisione senza che si corra il rischio di essere o troppo sottili, al punto da risultare incompresi – vedi il caso della D’Eusanio – o troppo espliciti, fino a incarnarla involontariamente in noi stessi, e non in ciò che si mostra ¬– vedi Belpietro.

Artù (su Rai Due, il giovedì alle 23.20) è una riuscitissima rappresentazione di un inferno, e precisamente uno di quegli inferni alla Hieronymus Bosch, in cui tutto ciò che non va perfettamente al contrario, rispetto alla vita, va semplicemente dove gli pare. Riuscendo dunque ad essere il dopo-Santoro che forse Michele si meritava dantescamente.

A partire dal nome del programma, dalla bella grafica dei titoli di testa e dalla sua scenografia, tutto è disillusione del circolo virtuoso che si riteneva sarebbe stata questa nuova fase della televisione, così come la stiamo conoscendo, che invece tanto viziosa si è rivelata (se davvero è quella, forse in declino, ma ancora al potere, dei reality-show e della loro influenza sui generi tradizionali).
La tavola rotonda al centro dello studio è simbolo di questo circuito, interrotto dalla figura del conduttore, un dittatore, ma del tipo chapliniano, la cui spada appare sguainata nel logo del programma, solo per poi risultare spezzata e inservibile all’analisi più attenta di un riflettore a raggi x puntato su di essa. Che rivela pure il memento mori – giustamente macabro – dello scheletro dello stesso conduttore. Poco dopo, il suo cranio rotolerà su e giù per i nomi del cast tecnico.

E’ uno dei possibili finali del sogno dello scambio fra produttore e consumatore, e quasi della fusione fra i rispettivi ruoli, di cui neanche una puntata di Buona Domenica ci aveva illuso. Ma, al tempo stesso, quella figura stilizzata e comicamente eroica è pure volontà di riattivare alle sue massime possibilità il vecchio corso, tramite una conduzione fatta soprattutto di autori, e bravi autori, di nuovo fermamente seduti al loro posto; fino a che qualcosa di veramente nuovo non sarà all’orizzonte: un obbiettivo che la televisione per ora ha forse rilanciato alle nascenti net-tv. Raramente si vede un titolo di testa così funzionale e significativo.

E così, tutto quello che vediamo in Artù, dalle più belle vallette del momento (naturalmente, la più comoda e furba delle parodie) agli ospiti come cavalieri convocati dal loro capo, ma ben legati alle loro sedie, che scorrono su binari; passando per la solo apparente banalità dei sondaggi e degli argomenti proposti, è sberleffo a una realtà della comunicazione che non ha ormai più né tanta ragione di esistere né bisogno di paladini o apologeti, e che dovrebbe essere stata pugnalata al cuore da un bel pezzo.

venerdì 19 ottobre 2007

Quella Squadra così vera senza veline né Big Jim

(in edicola il 19 ottobre 2007)

Giunta all’ottava serie – cifra che fa una certa impressione, e che probabilmente sarà raggiunta solo da Elisa di Rivombrosa, ma a che prezzo in termini di generazioni di figlie, nipoti e pronipoti della contessa originale, e soprattutto di loro corteggiatori capelloni o poco romantici – La squadra (su Rai Tre, il mercoledì in prima serata) si attesta ancora come una delle migliori produzioni nel panorama dei serial italiani. La storia è talmente lunga, verosimile eppure sempre ricca di interesse che un suo semplice riassunto delle puntate precedenti è già di per sé una fiction più credibile e meglio montata dei suoi antipodi storici: Distretto di Polizia o, peggio ancora, Carabinieri di Canale 5. In questa serie, nessuna poliziotta, che sia in ufficio o in prima linea, neanche nei suoi sogni meglio rimossi – che invece parlano di inseguimenti impossibili in alfetta, questori tutti d’un pezzo, camion di mitragliette fuori produzione da confiscare – è Martina Colombari o Alessia Marcuzzi.

Perfino le mogli dei protagonisti sono decisamente nella media, se si considera che una delle più appetibili è la ex-zingara di Rai Uno Cloris Brosca, alcuni anni dopo l’ultima occasione in cui poté vestire solo di un foulard senza il minimo sospetto di poter sembrare fuori posto, e continuare a mescolare delle carte da tarocco e conversare con Pippo Baudo, come se fossero ancora le due cose più naturali del mondo per una grande attrice di teatro napoletana.

Ad esempio, a differenza di Carabinieri, che è girato a Città della Pieve - comune umbro che, fra degli autentici marescialli che vi venissero trasferiti, molti considererebbero alla stregua di un villaggio turistico, e non solo provenendo dalla Sicilia per via della Salerno-Reggio - il set della squadra è nientemeno che a Piscinola, vicino Secondigliano, Napoli. Ma due sono le caratteristiche che rendono la Squadra un prodotto unico, in Italia. Da una parte, i rapidissimi tempi di produzione, che pure lasciano poco spazio all’improvvisazione, permettono spesso di legare gli episodi a casi di cronaca ancora attuali nei giorni della messa in onda, elemento che in Carabinieri era al massimo offerto da qualche sorriso o slancio di affetto in più del personaggio Manuela Arcuri, nei primi giorni in cui si relazionava con uno schermidore di professione.

Dall’altra, le analisi a tutto tondo dei protagonisti come dei comprimari, cui spesso, fra le righe del caso in questione, di puntata in puntata, si dedica la maggior parte del lato “personale” di un episodio, e il notevole dialogo fra la scena del crimine (per dirla alla C.S.I.) e il possibile dietro lo quinte biografico e morale che la rende non più cinematografica o televisiva, ma più concreta e umana. Un senso del realismo che, fra l’altro, rese possibile alla produzione una collaborazione con la vera Polizia di Stato per uno spot anti-botti di capodanno. Il fatto che tale spot fosse fra l’altro tristissimo, non è altro che un indice proprio del livello verosimiglianza raggiunto.

I trenta secondi mostravano un capannone apparentemente in preda a esplosioni incontrollate di bengala e bombe carta, che si rivela, all’ispezione da parte di agenti tratti dalla fiction, occupato da loro colleghi, alcuni reali, perché attori, e altri ideali, perché veri poliziotti, e nemmeno in borghese, intenti a suonare trombe e batterie in maniera coscientemente criminosa, ma tanto felici di quel dopolavoro inaspettato.

giovedì 18 ottobre 2007

South Park su MTV Italia. Stop alle censure Mediaset

(in edicola il 18 ottobre 2007)

Fra i numerosi meriti di MTV Italia – oltre a quello di insonorizzare verso il resto della casa decine di migliaia di camerette di innocentissime adolescenti, nelle sere in cui ricevono – questo autunno, c’è pure quello di aver sottratto una delle migliori serie televisive all’adattamento e alla distribuzione che ne proponeva Italia Uno. A partire dalla sua quinta stagione, dunque, South Park, il cartone animato per adulti più visto dai bambini, viene trasmesso dalla famosa rete musicale, dal martedì al venerdì, alle 23.30. I fan provenienti dalle classi di ciascuno degli anni ’90, che detengono la maggioranza, hanno semplicemente gioito a questa notizia, per poi riprendere subito dopo a sparare sulla folla di Miami o New York in qualche videogioco della Playstation. Quelli un po’ più anziani, invece, hanno percepito la novità anche come una vera e propria liberazione, tanto dal doppiaggio pesantemente censurato di Mediaset, quanto dalla prossimità con alcune edizioni della notte di Studio Aperto di cui l’orario tardo - e la natura relativamente sboccata dei suoi contenuti - avevano finito per dotarla.

Del resto, a poco poteva valere trasmettere un cartone coraggioso abbastanza da mostrare dei panda molestatori sessuali, se poi il suo lancio veniva regolarmente effettuato da Claudio Brachino in persona, remixato e riproposto, fresco come alle 18, e sempre attuale, al punto da chiudere il telegiornale alternando, di volta in volta, un servizio sul calendario di Melita Toniolo e un editoriale di Paolo Del Debbio, e, nei momenti di particolare bisogno, anche tutti e due. Molte le invenzioni felici o felicissime della quinta stagione, appena conclusa nella versione italiana. Fra cui va citata almeno quella del mezzo di trasporto alternativo denominato “The Entity” (L’Entità), talmente ecologico e sostenibile per le tasche degli automobilisti dotati del senso civico necessario da comprarne uno, che in pratica si muove per la forza generata da un pistone che letteralmente ne sodomizza il conducente. Geniale immagine che sfotte in un colpo solo petrolieri, politici e ambientalisti, ecumenicamente e democraticamente, come solo South Park sa fare.

L’ultima puntata andata in onda in prima visione, martedì, invece, è già la terza della sesta stagione. Morto definitivamente Kenny, uno dei ragazzini protagonisti degli intrecci – quello che cristologicamente veniva ucciso al termine di ogni episodio, e puntualmente resuscitava per l’inizio del successivo – i genitori dei ragazzi decidono di farli distrarre dal dolore, come se ne provassero, con una vacanza ad Aspen, la dolomite del Colorado. Ed è proprio una Cortina vanziniana, solo, se possibile, più classista, quella dello scenario che si prospetta loro. Ci sarà ancora meno pietà verso i Claudio Amendola meno abbienti che subito emergono nel gruppo, schiacciati dal peso di tutte quelle lezioni di sci mai prese (da un istruttore che non si fa chiamare, si chiama: Tampax). Un po’ a disagio perché meravigliati della cocaina che viene consumata tranquillamente nelle vie dello shopping, su tavolini da gioco delle tre carte, ma per niente stupiti da una realtà in cui gli ultimi saranno gli ultimi, e basta. Così, mentre uno dei bambini, Stan, avrà il coraggio di sfidare a sci il campione locale, trionfare, sovvertire l’ordine delle cose e vincere la stima della ragazza più brutta della compagnia, gli adulti saranno impegnati a dribblare invano venditori di multiproprietà-loculi, che finiranno poi per piacere loro, forse perché del tutto simili, nel campo lungo, a tanti enormi televisori, sintonizzati sempre sullo stesso spettacolo, che non vorrebbero mai vedere se non fossero stati persuasi di averlo pagato abbastanza poco.

mercoledì 17 ottobre 2007

A Carini va in scena lo Stanislavskij invertito

(in edicola il 17 ottobre 2007)

Alla seconda e ultima visione della Baronessa di Carini – mini-serie terminata lunedì su Rai Uno – è evidente fin da subito che la povertà senza tempo dell’interpretazione del protagonista maschile (Argentero) è pari solo alla bellezza di quella femminile (Puccini), e che se non fosse stato per le presenze del genio tardivo di Lando Buzzanca e del talento sempreverde di Enrico Lo Verso, questa fiction non sarebbe stata ricordata neanche come una nuova edizione di Elisa di Rivombrosa senza siparietti lesbo-chic, ed Enrico Beruschi nei panni di un aristocratico.

Del resto, due sono gli elementi notevoli di questo lavoro di cui il regista Umberto Marino non ha potuto fare a meno: uno del tutto stra-cultuale (per usare un’espressione alla Marco Giusti) e meta-televisiva, e uno un poco glottologico.
Il primo punto è interamente portato a spalla da Buzzanca. Per chi non l’avesse visto in azione, basterebbe dire che a un certo punto l’Homo eroticus ipnotizza Vittoria Puccini. E’ un momento che dovrebbe essere catartico non solo per l’economia dell’intreccio della Baronessa, ma anche un po’ per tutto quello che sta accadendo – pure per colpa di gente come Argentero, e pure a scapito di Buzzanca e di possibili, nuovi Buzzanca – nel cinema e nella televisione italiana. Da medico nella scena, come da grande attore nella realtà, in sostanza Lando azzittisce Vittoria per un attimo e le rivela chi è veramente, dentro e fuor di metafora: da una parte, la reincarnazione dell’originale baronessa di Carini, vissuta nel 1500; e, dall’altra, un’attrice che non ha davvero niente a che spartire con Janet Agren, che fece il suo stesso personaggio nel ’75, nella prima versione televisiva di questa storia.

Il secondo punto riguarda un particolare aspetto della recitazione di oggi: una specie di metodo Stanislavskij invertito di senso. La finzione non sarebbe più sentita e fatta propria dagli attori al punto da diventare, fosse anche per il solo spazio di una scena, parte della loro vita; ma, viceversa, è decisamente sempre più una parte della loro esistenza che traspare nel personaggio che interpretano. Nella fiction, così, spesso con c’è miglior cattivo di chi un po’ bastardo, in verità, lo è veramente. Allo stesso modo, Luca Argentero non poteva chiedere una parte più minuziosamente ritagliata su di sé, al direttore del casting che lo ha voluto interprete di un pessimo attore: Luca Corbara, un giovane cartografo che per la maggior parte del metraggio a sua disposizione deve fingere di non sapere dove si trova – oltreché a far finta di non sapere certe cose sotto tortura.

La Baronessa di Carini, inoltre, inverte un’altra tendenza nei nostri sceneggiati contemporanei, ormai vecchia come i corsi di dizione: quella secondo cui i buoni hanno il diritto di mantenere, in parte o in tutto, la loro parlata regionale di origine, mentre, i cattivi, no; e sono costretti a separarsi ancor più dallo spettatore sfoggiando spesso un perfetto italiano, ritenuto evidentemente crudele o iniquo dalle produzioni. Una tendenza, peraltro, incalzata dalle mitiche televendite di macchine per cucire in umbro moderno o fianese ferillesco (parlate giudicate forse dai marketer al di sopra di ogni sospetto d’inganno o disonestà) e solo più recentemente caduta in disgrazia, in tempi del tutto sospetti, con alcune conduzioni televisive di Antonio Socci, fra i toscanacci meno riusciti che il centro-Italia abbia saputo crescersi in seno.

Qui avviene invece che siano i buoni ad essere portatori di una parlata non diciamo italiana, ma quantomeno all’italiana; mentre ai cattivi che di volta in volta appaiono sullo schermo è concesso di parlare in un siciliano anche relativamente stretto, mentre picchiano di santa ragione un ragazzotto pallido di Torino, che forse, anche agli occhi dei suoi vari aguzzini, rispettabilissimi signori che si guadagnano il pane e le birre facendo le comparse, fra le sue colpe doveva contare anche quelle di essersi ridoppiato estremamente fuori sincrono e soprattutto di essere stato preso al Grande Fratello.

martedì 16 ottobre 2007

Il cavallo di Troia dell’astuto Fabio Fazio

(in edicola il 16 ottobre 2007)

Che tempo che fa (in onda su Rai Tre il sabato e la domenica) nacque davvero come un programma che avrebbe dovuto parlare quasi solo di meteorologia. E, per un po’, lo fece sul serio, per quanto allegramente e approfonditamente; dapprima senza neanche metaforizzare troppo un tema – il tempo – che, almeno all’inizio, altro non era che una brillantissima operazione di disonestà intellettuale.

Era quasi l’ammissione, a denti stretti, di aver scelto quello stesso titolo-battuta per non sapere come altrimenti attaccare bottone con degli spettatori traditi e perduti, da parte di un Fabio Fazio a sua volta tradito dal nuovo network la7. Unita a una critica malcelata ai talk-show lunghi, generalisti e fatti male – segnatamente quelli, interminabili, della domenica che, invece, molto spesso, potendo parlare di tutto, finiscono per non parlare di niente e soprattutto non riuscire ad ammetterlo neanche sotto tortura.

Insomma, il punto è che ad averne la stoffa, anche solo col parlare del tempo, come sanno benissimo gli inglesi, il cui humour si innesta chiaramente su quello non solo ligure di Fazio, si rischia di fare un programma televisivo valido e durevole.
Fino ad oggi, difatti, di edizione in riedizione, questa ottima trasmissione ha saputo dare fuoco al palinsesto di Rai Tre con la stessa astuzia con cui il cavallo di Troia fece con quella cittadella sonnolenta.

Lo show è passato attraverso abbastanza stadi evolutivi da risultare ora – dopo la fase solo comica, e dopo quella solo noiosa – un autentico caso di piccolo varietà di una sola ora e mezza: quasi noncurante del suo momento talk, che pure è bellissimo e spesso ospita personalità che mai andrebbero altrove, in televisione; e al tempo stesso molto fiero del suo lato B da cabaret di alto profilo, che pure qualche volta sbaglia in durata e scelta dei temi.
La puntata di domenica, ad esempio, ha avuto come ospiti nientemeno che Johnny Hallyday ed Eugenio Scalfari, ed è riuscita in due imprese difficilissime: a farci vedere il coté quasi simpatico dell’uno, e a parlare seriamente di primarie con l’altro.

Forse stanca solo un poco, come volevamo dimostrare, proprio lo spazio ormai affidato da tradizione a Luciana Littizzetto in leggings, che continua a eseguire per un’altra stagione i suoi due principali cavalli di battaglia: fare l’elenco delle inadeguatezze fisiche e mentali di Fazio rispetto ai personaggi che intervista, e l’operazione culturale di dissacrare la poltrona dell’intervistato, muovendo parecchio le gambe e i piedi su e giù per la scrivania del conduttore.
Fortuna che quest’anno, nella grafica del principale titolo di testa, quello col nome della trasmissione (ma che poi fa da sipario virtuale agli stacchi pubblicitari) c’è un’apparente minuzia, in realtà geniale.

Il titolo è un finto gobbo, invece che occultato, in sovrimpressione che, al posto di dettare legge su cosa dire o fare sulla scena, si limita a ripetere, riga dopo riga, nient’altro che quel “che tempo che fa”, come un memento tanto dell’idea originale alla base di tutto, quanto della grande libertà da un copione che ci si può concedere quando se ne ha l’intelligenza e, soprattutto, il tempo.

lunedì 15 ottobre 2007

Santoro versione camomilla. Era meglio quando si stava peggio?

(in edicola il 13 ottobre 2007)

Questa settimana, la puntata di Annozero parla di semplici reati di allarme sociale: accattonaggio, abusivismo, vandalismo, guida in stato di ebbrezza. Quasi un giovedì sera rilassante. Ciò, non solo visto quanto effettivamente brutali siano state le due precedenti, dedicate al tema delle minacce di andarsene dallo studio da parte di Mastella, ma soprattutto considerato che i momenti più drammatici di questa ultima sono stati due: quando abbiamo scoperto che Di Pietro avrebbe parlato; e, qualche quarto d’ora dopo, quando abbiamo capito cosa avesse detto e che avesse ragione.

Lo stesso reportage di Ruotolo non ha presentato particolari difetti di pronuncia da parte da parte degli intervistati, né errori di montatore che distogliessero l’attenzione dalla semplice povertà di contenuto delle idee espresse dai cattolicissimi bolognesi in ansia per la nuova moschea, né tantomeno da quanto poco si potesse, onestamente, commentarle.
Una Borromeo particolarmente in forma mentale, del resto, non ha aiutato. Sappiamo da tempo come si svolgono le sue puntate di Santoro. Alternativamente, di giovedì in giovedì, deve decidere fra il broncio bella-ma-avveduta, o il cipiglio nobile-ma-impegnata. Stavolta le è parso il caso di depistarci, seminando il panico, mentre alimentava sospetti di ghigno giovane-ma-sfiduciata. L’intervista alla graffitara ha ristabilito l’ordine costituito.

Per il resto, ovunque una civiltà, un rispetto, una documentarietà dei servizi in esterna e delle sopracciglia di Francesco Storace, in studio, tali che, a tratti, qualcosa ci fa temere davvero di trovarci a una puntata speciale di Report, magari commemorativa di qualche anniversario dalla sua prima messa in onda, ma senza Milena Gabanelli e con qualche pezzo di femmina in più.
Quasi i capelli di Santoro paiono più scuri o pettinati, sotto un influsso nuovo. L’obbiettività, quando non serve particolarmente, è quasi un lato oscuro della forza di Michele. Per chi non fosse fan di Guerre Stellari (né di Santoro), leggasi: dopo tutto quanto si è detto da parte del governo contro di lui, era forse meglio quando si stava peggio. Non abbiamo detto si era più oggettivi quando si era soggettivi, ma poco ci manca.

Eppure il perché di tutto questo è semplice, e dietro il cravattino a farfalla di Bruno Tinti (il procuratore aggiunto autore di Toghe rotte) che, per una volta, ruba la scena perfino all’assenza di cravatta di Marco Travaglio, che fra l’altro ne indossa una impeccabile.

Il bello della puntata è proprio questo continuo gioco dei contrari. A un Travaglio quasi accomodante corrisponde un magistrato incazzosissimo che, per il tempo di una grand soirée, opinionista dentro e Gervaso fuori, telegenico com’è, inveisce, argomenta, editorializza, altrimenti fa sgomberare il set.

Insomma, è avvenuto che il Santoro cui siamo abituati, questa volta, sia stato proprio Tinti, come pure, in qualche film di Woody Allen, il regista non compare direttamente, ma lascia a qualcuno che non gli somiglia per niente – il britannico Kenneth Branagh in Celebrity, o il giovanissimo Jason Biggs di Anything Else – il compito di impersonarlo e farne proprio perfino l’eloquio.

Spesso, sempre al cinema, quando si rappresenta una scena di giustizia, gli avvocati sono astutamente metaforizzati sottoforma di attori ad un provino per un ruolo. Chi recita meglio, convince meglio. Rivolgono le loro due interpretazioni di una stessa scena a un giudice di celluloide che, allora, diventa il critico cinematografico della loro causa.

In Annozero di giovedì è stato un giudice a voler provare per quella parte.

domenica 14 ottobre 2007

Viaggio low-cost nell'Isola più brutta del mondo

(in edicola il 12 ottobre 2007)

L’Isola dei Famosi è uguale e contraria al reality-show tradizionale, intendendo per tradizionale il Grande Fratello prima maniera, ad esempio. Breve introduzione storica. In origine, il Grande Fratello non era altro che un modo per la gente veramente comune di conoscere certi lussi, e di farsi vedere e invidiare, per questo, da ben due categorie di persone: 1) da gente ugualmente comune, o ancora più comune, per il fatto di godere di piaceri da vip dei nostri tempi; e non parliamo solo del lusso di apparire in televisione, dall’altra parte del tubo (non tutti avevano ancora i cristalli liquidi). Ma, anche, di quello, più realistico - per quanto citazionista di situazioni viste comunque in televisione - rappresentato, per dirne una, dalla storica, meravigliosa piscina a fagiolo da set di serial adolescenziale interpretato da trentenni (cfr. Beverly Hills 90210). 2) dai vip stessi, specie quelli di rango basso o infimo, che avevano trascorso una vita a cercare di far finta di conoscere Maurizio Costanzo e che, una volta conosciutolo per davvero, si ritrovarono a condividere il palco di Buona Domenica con tizi che un giorno prima sarebbero potuti passare per loro cugini di cui vergognarsi, che praticamente a Costanzo saltavano sulla pancia in diretta (e non è detto che non lo fossero davvero, loro cugini; né che non se ne vergognassero, così, doppiamente).

Insomma il primo Grande Fratello ebbe una portata realmente rivoluzionaria per la televisione com’era stata prima, in senso copernicano stretto. Gli ultimi erano i primi, e viceversa. L’Isola dei Famosi – e una decina buona di suoi cloni riusciti male o peggio – venne al mondo per infierire su tutto questo. Perché limitarsi a rendere famosi in un mese degli sconosciuti, per poi affiancarli a dei famosi in trasmissioni domenicali in cui, all’unisono, per quanto diversi potessero essere i loro curricula, potessero applaudire Massimo Lopez che faceva Frank Sinatra? Passare dunque alla fase B: deportare dei famosi veri (!) in un’isola deserta, e dare loro poco da mangiare e niente su cui rivedersi. Due picchi del reality show del tutto gettati al vento se, col tempo, il desiderio da parte del pubblico per la contaminazione, per la fusion, per il manierismo ha portato il Grande Fratello a far concorrere non più solo ignoti, ma anche spogliarelliste già di un certo valore contrattuale, per poi farle dedicare al consumo di sangue animale; e l’Isola dei Famosi, dal canto suo, a maltrattare ugualmente, oltre ai vip stessi, della gente comune, che pur di partecipare alla trasmissione farebbe un patto col diavolo e finisce per farne uno con Simona Ventura.

Toltoci questo dente, c’è da dire che anche l’edizione di quest’anno dell’Isola è spaventosamente brutta: brutta in generale per via di molte piccole e medie bruttezze particolari. E, per quanto avremo ancora modo di soffermarci più in dettaglio sulla sua bruttezza, più avanti, nel corso dell’edizione, non possiamo negare nemmeno oggi che la piccola cosa più brutta di tutte sia, nonostante gli sforzi da parte di chi scrive di essere il meno banale possibile, nient’altri che Cristiano Malgioglio; e la migliore e più grande Manuela Villa. L’uno, perché, come ignaro del suo ciuffo biondo, passa il suo tempo a specchiarsi nell’opinione di lui che pensa abbiano gli altri, ed è uno specchio, questo, più deformante della televisione stessa; l’altra perché, pur sapendo benissimo di essere la più intelligente a bordo, gli parla lo stesso e tira fuori il peggio di lui come neanche Cecchi Paone sa fare. Don Chisciotte sovrappeso lui, Sancho Panza in cura dimagrante lei, sono i due personaggi più interessanti sull’Isola perché i due termini opposti dell’irrealismo più spinto e della massima verosimiglianza.

venerdì 12 ottobre 2007

Quella casa di bambola di “Very Victoria” Cabello

(in edicola: 11 ottobre 2007)

Vispa eppure relativamente elegante, italiana ma non troppo, Victoria Cabello – nonostante il fatto che non abbia più l’età per passare da ragazza di “Non è la Rai” mancata – rappresenta tutt’ora un’avanguardia mai imborghesita. Anche perché, con quella parlantina e tutto quel tempo per lo shopping, signorina e anticonformista insieme lo è sempre stata. Sono intere stagioni – per tacere dello sfacelo sanremese – che il suo obbiettivo è quello di riformare dall’interno un genere televisivo stranamente ancora in voga: il talk show condotto da donne intelligenti. E “Very Victoria” (in onda su MTV ogni martedì, mercoledì e giovedì alle ore 22 e 30) non sbaglia neanche quest’anno. Innanzitutto, perché la prima ospite della prima puntata è Valeria Marini, e si riesce a sfuggire perfettamente al solito gioco complessato di volerla far apparire una donna normale o comprensibile razionalmente, ma si accetta invece, fellinianamente e dionisiacamente, l’impossibilità della sua esistenza in un mondo fatto di cose concrete e donne reali. Lasciandoci temere che i suoi coscioni possano non superare – così come li vediamo dentro – la soglia dello studio e, all’uscita, dissolversi nella sera milanese come se fossero esistiti solo nel mirino sfocato di un cameraman di primo pelo.

Ma non sbaglia anche e soprattutto perché, come per un contrappasso dantesco particolarmente perverso e azzeccato, il secondo ospite, Fabio Canino, ex-iena e conduttore radiofonico omosessuale dichiarato, non fa altro che una gustosa parodia volontaria del gay, alla moda e archetipico, per tutta la durata della sua intervista. Cominciando col comparire fra i due valletti in smoking ringraziando il pubblico alla maniera di uno stilista medio, con bacetti e timidezza d’ordinanza; per poi felicitarsi ripetutamente dell’esistenza di calciatori e convincerci sempre più di essere un ottimo showman, forse recentemente troppo sfortunato con “Votantonio”, su Rai Due lo scorso maggio. Unico calo spirituale dello spazio a lui concesso è il momento del gioco con Fabio: la sfida con due travestiti da Raffaella Carrà su domande su Raffaella Carrà, stravinta, fra l’altro meritatamente, dall’unico senza parrucca dei tre.

La scenografia del programma di Victoria è cambiata di poco, sempre accattivante. Soprattutto, è comparsa una scala sontuosa, ma che non conduce da nessuna parte: amaro simbolo, ennesima tristezza, per niente celata, del ricordo di Sanremo. I due cavalli rampanti ai lati delle poltrone per ospite e conduttrice sono stati tappezzati di una pelliccia ecologica rosa. Altro mesto ricordo, invece di un ex-show, di un ex-fidanzato installatore? Interessante l’idea di porre in studio una scatola di plexiglass che, invece di essere vuota e taciturna come fu quella di Flavia Vento nel primo “Libero” di Mammuccari, è ammobiliata e ciarliera, bontà della sua abitante: Marisa Passera, detta, più spesso, “la Giada”. La scatola riproduce in piccolo la scenografia della Cabello. Una sorta di casa della bambola, metaforica ma a grandezza naturale, simbolo della televisione che si accasa, in cui sarebbe potuta finire intrappolata anche Victoria se non avesse il coraggio di essere se stessa – o di fingerlo benissimo – anche in questa sua edizione.