venerdì 30 novembre 2007

Blob, il lato cubista della televisione



(in edicola il 29 novembre 2007, commenti qui)

Si sa che Blob (Rai Tre, ore 20 e 10), da sempre, ha il merito di mostrarci il lato cubista della televisione. Vale a dire quanto, cambiando l’ordine degli elementi – e soprattutto dei contesti – a disposizione, il risultato (il significato) cambi, eccome. Blob è la rivincita del video sulla libertà interpretativa che ha solo l’immagine fissa, apparentemente statica di una foto. Immersi nel senso di una foto, possiamo navigarci in che direzione vogliamo; anzi, lo creiamo noi il suo senso di percorrenza: andata e ritorno, quando puntiamo gli occhi sull’immagine, e quando li distogliamo. E’ come una nostra ripresa, con camera rigorosamente a mano, dell’oggetto che guardiamo. Non esiste altra immagine di quella che è compresa fra questi due momenti, ed è diversa non solo da soggetto a soggetto che la guarda, ma anche lo stesso soggetto farebbe fatica a riconoscere la stessa immagine, se la guardasse con sincerità, in momenti diversi della giornata o della vita.

Il video, invece, e soprattutto la televisione, è un’immagine del mondo, dell’esistenza o di Luisa Ranieri, che è stata già sottoposta ad una di queste osservazioni creative, ed è stata cristallizzata, catturata per sempre in un RVM o diretta che sia, ad uso di gente (il pubblico) che quella stessa visione non ha avuto. Questo, perché o quell’immagine – così interpretata – è particolarmente bella, e dunque meritevole di essere condivisa, oppure perché è particolarmente utile, e quindi degna di essere somministrata. Blob ha capito questo molti anni fa, e la sua azione quotidiana è di restituire alla libertà di un proprio personalissimo montaggio l’immagine televisiva, da immobilizzata, per quanto in movimento, che era. E, soprattutto, invita il suo pubblico affezionatissimo a fare altrettanto, magari in scala più piccola, attraverso quello strumento d’opinione, sempre sottovalutato, che è il videoregistratore. Detto questo, anche la puntata di martedì è stata magnifica.

Il parallelo fra Adriano Celentano ed Emilio Fede, magistrale. L’uno che si abbevera, mentre parla, l’altro che produce saliva, e pure parla, sono un ecosistema perfettamente autonomo dal punto di vista dei liquidi. Due modi di reinventare due generi televisivi (il varietà e il telegiornale) attraverso un simbolismo fittissimo di rimandi, di collegamenti a due idee: l’uno il proprio disco appena uscito, e l’altro il proprio cantante preferito. È come un’intervista doppia non autorizzata, un dialogo filosofico clandestino: cosa che tendono a instaurare la maggior parte degli stacchi fra un personaggio e l’altro, in Blob, ma questa volta con una perfidia e un’intelligenza ancora più flagranti. E mentre smonta e rimonta pezzi della nostra storia quotidiana, non c’è un momento in cui Blog non diminuisca e aumenti, al tempo stesso, il valore del lavorio continuo delle immagini sulla nostra coscienza e sulla nostra immaginazione. Nel riordinarle, in modo apparentemente contrario a quello proposto dai loro autori, e facendoci, d’improvviso, apparire così bizzarra o interessante una semplice intervista a Mario Borghezio, ci spiega con una precisione esemplare dove sbagliamo noi e cosa hanno indovinato tanti autori di televisione sbagliata, disonesta o solo brutta. Se basta cambiare colonna sonora a un discorso sgrammaticato per farlo sembrare solenne o irresistibilmente comico, basterebbe anche solo il tasto di un telecomando perché questo stesso rischio non si corra più.

giovedì 29 novembre 2007

L’onesto marchettone del Molleggiato nostro



(in edicola il 28 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Fra le cose che deve farsi perdonare il presente show di Adriano Celentano, dite pure che c’è, innanzitutto, la sigla-strip, in cui i vestiti della ragazza che vanno via si incendiano al contatto col suolo. Dite anche che Fabio Fazio, per quanto sia bravo, non è che poi sia David Letterman apparso sulla scena in persona, e che quindi la sorpresa di vederlo interloquire con Celentano non è che sia poi così stupefacente, come il suo modo di guardarsi attorno in cerca di “ohhhhh” vorrebbe far credere. Aggiungete che è tutto troppo lungo, e avrete forse elencato alcuni difetti, ma solo formali, di messa in opera, di un progetto altrimenti corretto nella sostanza e nella formula, che delegittimare gridando alla marchetta, come molto fanno, col 2008 alle porte, ci sembra francamente disonesto. Insomma siamo convinti che si possa parlare di questioni di gusto o di decoro, ma non certo di etica professionale (quale professione? L’interprete di canzoni, così soggetto a un mercato – quello musicale – in crisi di vendite e di ispirazione?).

Non dite dunque che la pratica dello spot monumentale all’ultimo disco in distribuzione – esteso alla durata di un intero programma in più puntate - sia codarda o, peggio, superata; soprattutto in tempi come questi, in cui la pubblicità è in soprattutto se è occulta, se è chiacchiera orchestrata in modo che sembri spontanea o, ancora, se è il classico redazionale di tg (che, del resto, c’è da dire che non mancherà mai ad Adriano, ma non è questo il punto). Nulla contro il marketing del passaparola, beninteso, se fatto a regola d’arte, ma neanche qualcosa contro quello più diretto e “spettacolare” del solenne marchettone, se intrattiene e non mente.
Di spontaneo, nella trasmissione di Rai Uno, dunque, c’è ben poco, ma non è affatto richiesto che ci sia qualcosa di naturale in uno show del genere. A parte la fiducia di una casa discografica nei confronti di un prodotto che ha realizzato, e il suo desiderio di investire anche in televisione, perché quel prodotto venga comprato dal maggior numero possibile di spettatori di Celentano.

“La situazione di mia sorella non è buona”, come la maggior parte delle fatiche televisive di Celentano, altro non è che questo: pubblicità di una certa qualità. Perché ad esempio, destruttura una canzone nella rappresentazione del suo paroliere (Mogol), dell’autore delle sue musiche e del suo interprete che dialogano prima della sua esecuzione, come nella figura di tre stati della materia (da esperimento scientifico), o tre età dell’uomo (più rinascimentale). Oppure perché Celentano canta bene.
C’è gente che la studia, la pubblicità televisiva, che ci scrive saggi fuorvianti o emozionanti; altri che la sottovalutano, o altri ancora che la venerano più del prodotto che proponga; gente che la guarda e compra, o che non la guarda e compra lo stesso. Celentano ha parlato del suo prodotto, ha più o meno interessato, venderà. Non dite che non ha fatto il suo dovere. Se per tutti gli altri non è stato un piacere, è tutta un’altra questione.

mercoledì 28 novembre 2007

Lucrezia Donna Detective, una fiction “differente”



(in edicola il 27 novembre 2007)

Le fiction poliziesche all’italiana, sulla falsissima riga di quelle all’americana, hanno da sempre, come per vocazione, il compito di mostrarci dialettiche superficiali e retoriche fra le parti d’azione e quelle, dietro le quinte, di umanità o mancata umanità delle forze dell’ordine in ballo. Gente che, nonostante nel lavoro sappia come inseguire più e più spacciatori, incastrare malavitosi e saltare le cene, poi, nella vita, si concede sorrisi e amori non corrisposti; è pasticciona nell’economia domestica; può divorziare nel primo episodio e poi starci male per stagioni. Donna detective (altre cinque domeniche, 21.30, Rai Uno) è differente. Ma non come la banca della pubblicità tormentone: è sul serio un’altra cosa. Sarà che Lucrezia Lante della Rovere è perfettamente in parte, come non succedeva da La carbonara; sarà che Flavio Montrucchio, pur presente nel cast, non ne è affatto il protagonista maschile (lo è il giovane vecchio Kaspar Capparoni); sarà semplicemente che il soggetto e la sceneggiatura sono stati composti da gente relativamente sopra la media cui ci ha abituato Rai Uno, negli ultimi tempi: di fatto questa la prima puntata di questa fiction è stata piuttosto originale, ma non forzata.

Lisa, l’ispettore protagonista, è una specie di Dexter rovesciato. Dexter è l’eroe/antieroe del serial americano omonimo, in cui questo personaggio (fra i massimi della categoria) passa metà del metraggio di ogni episodio, a sembrare un collaboratore della polizia normale, con amori, famiglia etc. E, per il resto, squarta persone come un qualunque serial killer d’alto livello, senza lasciare tracce, ma con il solo scopo di ripulire il mondo dalla spazzatura che lo stesso suo dipartimento non riesce a eliminare con metodi convenzionali. Il personaggio di Lucrezia, invece, trascorre tutto il tempo a disposizione a convincerci di essere una poliziotta del tutto fuori dal comune, e poi è una delle mamme di famiglia più credibili e “normali” dai tempi di Giulio Scarpati nel Medico in famiglia prima maniera. Scene clou i tragitti in macchina con i figli, quasi da “Caterina va in città” mutante in “L’ispettore torna in campagna”, chiudendo il cerchio, quotidiano, del trapasso da show-pistolettate a backstage-mangiate tutto. Ci si chiede, insomma, se sia più la paciosa vita rurale sulla tiburtina ad essere la fonte materiale di quello che accade, conseguentemente, in una sfera più metropolitana e rischiosa; oppure, viceversa, la città non sia una fonte di emozioni e di spettacolo per i bambini-pubblico tornati da scuola, che credono alla vita della mamma - che ha inseguito un furfante, prima di aprire loro lo sportello - come a una puntata nella puntata, e particolarmente avvincente, di un altro dei serial che non vedranno, perché messo all’indice da una genitrice del ramo.

Grande affiatamento coi bambini attori, soprattutto in quelle canzoncine (la vera novità) che sembreranno solo dettagli, a chi è avvezzo a chiedere “sostanza”, a una fiction, e poi spesso si ritrova in mano nient’altro che la solita comodissima cocciutaggine degli scrittori, che proprio non se la sentono di credere che il pubblico possa desiderare qualcosa di diverso. E invece, anche quelle scene, sono solo segno di cura e rispetto per ogni scena e ogni categoria di spettatore, in un prodotto italiano che davvero, per una volta, non mente sapendo di mentire quando, nel sito ufficiale, dichiara di essere esportabile e universale come “un serial americano”.

martedì 27 novembre 2007

Con Celebrity Death Match trionfa la parodia grossolana



(in edicola il 24 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Celebrity Death Match è uno show animato di Mtv che, dalla sua prima edizione ad oggi - che si è alla quinta stagione, e al decimo anno dalla prima messa in onda - non smette di peggiorare e di stupire per il fatto che un programma così povero di idee possa avere successo. Ogni puntata rappresenta degli incontri di wrestling mortale fra due o più pupazzetti che parodizzano delle star sopravvalutate nordamericane. Di norma, quando qualcosa di scritto tanto male ha tanto seguito, in televisione, si tratta quantomeno di donne concretamente in forma, e quasi mai fatte di plastilina. E meraviglia anche il fatto che si riesca a sfruttare tanto male un tema, come quello dell’iperviolenza animata grossolanamente a scopo di comicità, che altrove, e basti guardare una puntata dell’ottimo cartoon Happy Tree Friends (che abbiamo scoperto recentemente con un articolo su TvBlog di Francesca Camerino), riesce ancora a fare riflettere sulla vita o morire dalle risate, secondo i giorni e i metabolismi.

Ciò che si nota nell’edizione italiana è la buona qualità del doppiaggio, in particolare della voce del telecronista non pasticcione realizzata dall’immancabile Pietro Ubaldi, che riesce puntualmente nel difficile compito di non perdere la pazienza e mandare tutto a monte facendo la voce del pupazzo Uan di Bim Bum Bam. Le gag di quello pasticcione, detto Nick Diamond, invece, sono sempre talmente povere e infelici che una delle migliori è quella dell’ultima puntata, in cui perde il computer portatile e dichiara più e più volte di non averci niente di compromettente, dentro, arrossendo e tremando per l’imbarazzo, al punto che arriviamo a sperare che l’incontro successivo inizi presto. Uno dei personaggi più riusciti è invece il pubblico, che spesso interviene negli scontri sul ring perché innamorato di qualcuna delle concorrenti, cui richiede favori sessuali in cambio di aiuto concreto. E che spesso strappa un sorriso, soprattutto nella gestione della sua emotività, come quando gli spruzzi più alti e intensi di sangue, che scaturiscono dalle più oscure cavità di un duellante, non provocano lo stesso disgusto, nella facce tutte molto caratterizzate delle prime file, che invece suscita l’ascolto di una qualche dichiarazione d’amore o ammissione di essere incinta, da parte di Mischa Barton o equivalenti.

Qualche altra volta, sono armi non convenzionali a farci superare la soglia di un certa noia. Come i plafond di carte di credito che sono annunciati come risorsa segreta, talmente potente che immobilizzano l’avversario, e poi materialmente lo decapitano, se usate come stella ninja versione oro o platinum. Il punto è che questa serie vuole metaforizzare il tipico scontro fittizio dei talk-show di mezzo mondo, di quelli che contrappongono due politici, attori o opinionisti dal vago curriculum che magari nella vita si adorano – o, comunque, non si picchiano – e che poi sulla scena devono litigare per copione. Solo, farlo per dieci anni, sinceramente, è qualcosa che non ci sogneremmo di chiedere neanche a metafore di gran lunga migliori di questa, e non ci stiamo riferendo a roba sessuale e a Bruno Vespa.

sabato 24 novembre 2007

Evviva “Occhio alla spesa”, il best dell’infotainment



(in edicola il  23 novembre 2007)

Occhio alla spesa (Rai Uno alle ore 11, dal lunedì al venerdì) è molto più di un semplice modo di chiedere scusa ai telespettatori, da parte della televisione di Stato, per una colpa durata lunghi anni che, del resto, non ha commesso: “Ok, il prezzo è giusto”.
Che, per inciso, era infatti trasmesso dalla vecchia Fininvest, e trattava il tema del bellissimo programma di Alessandro Di Pietro (gli aspetti commerciali della merceologia) da una prospettiva completamente opposta: era un gioco a premi in cui non poteva capitare di meglio che vincere la merce che costasse di più, fra i brand sponsor che acconsentissero a esporle in quella vetrina, innovativa ma deformante. Occhio alla spesa, invece, è probabilmente il miglior programma del cosiddetto infotainment italiano (informazione unita ad intrattenimento), e riesce nella sua missione di attivare le coscienze in fatto di spese quotidiane – soprattutto alimentari – anche perché non c’è un siparietto comico (spesso figuranti d’alto bordo promossi per un giorno) o musicale (affidati a nientemeno che Tony Santagata) che poi non insegni qualcosa. E, viceversa, non c’è una scheda di approfondimento che non faccia prima il suo dovere, e subito dopo il piacere delle telespettatrici, quando il conduttore snocciola i valori percentuali della crescita o della diminuzione del prezzo di una certa qualità di lattuga o fungo raro: i momenti di massima perversione per i fan del programma.

Includendo anche dei piccoli giochi a premi in un’ora in video che, per altri versi, è giornalismo televisivo, e anche di ottimo livello, Di Pietro è riuscito a confezionare un format che, da cinque anni a questa parte è un piccolo culto, non solo di massaie di tutte le età ma, dato l’orario di messa in onda, anche di studenti dell’obbligo bloccati a casa da malanni, quanto di universitari in perfetta salute. Certo, almeno la prima parte del target di cui abbiamo parlato, le massaie, deve rasentare l’adorazione per un uomo così, in azione fra i banchi del mercato, con le mani in mezzo alla pasta ancora da stendere, eppure sempre perfettamente virile e telegenico. Uno che, del resto, non ha mai fatto compromessi nel nascondere o mostrare quanto gli piaccia accompagnare le donne a fare la spesa, e anche le due cose prese singolarmente. Ma anche il resto del pubblico non può fare a meno di trarre vantaggio dai suoi consigli, che toccano il loro culmine formale e contenutistico, nella rubrica dell’intervista “al prodotto”.

Il momento in cui la merce cui è dedicata la puntata (ieri la lattuga), posta su uno sgabello e sotto i riflettori, risponde alle domande di Alessandro doppiata dall’accento regionale della sua provenienza, ma solo nel caso che si tratta di un esemplare doc.
Altra forma del tutto innovativa di rapporto con le cose che compriamo, di solito a prezzo troppo alto, sono le corrispondenze via videofonino da vari mercati sparsi per la penisola. Affidate spesso a quegli studenti universitari che non riescono a restare a casa per l’ora del programma, ma del resto neanche a recarsi concretamente in facoltà, quelle interviste, pur orchestrate alla maniera della parodia del collegamento telegiornalistico classico, mostrano magagne e veri e proprio raggiri che avvengono sotto i nostri occhi ogni giorno. Bravo Di Pietro che non ha mai accettato abbastanza lusinghe, da parte di reality e talk-show, che avrebbero sicuramente molto giovato della sua presenza, ma nuociuto alla sua freschissima autorevolezza.

venerdì 23 novembre 2007

Generalista? No, Joost, una tv da fantascienza



(in edicola il 22 novembre 2007)

Mentre la televisione tradizionale è lasciata ai fasti della sua decadenza, simboleggiati molto efficacemente dalle orge del pomeriggio domenicale, due modi principali di riscoprirla muovono i primi passi, entrambi su internet. Da una parte, la net tv classica, prodotta con strumenti semplici, ma fruibile da tutti, con il solo tramite dello stesso programma che usiamo per visualizzare tutti gli altri siti. Produce programmi molto forti dal punto di vista dei contenuti, per forza di cose; “di parola”, più che d’azione o di effetto speciale. Sono condotti quasi esclusivamente in piccoli studi, da conduttori vicini alla radiofonia, nel bene e nel male (cioè: per la qualità dei testi, e per la relativa povertà delle immagini), e non programmano spot pubblicitari, se non quelli che sono presenti sulle pagine web che li ospitano. Di fatto, soprattutto per via delle basse spese di produzione che vi sono richieste, è stata la prima forma di televisione via internet realizzata anche in Italia. Dall’altra parte, affiorano esperimenti come quello di Joost, che invece hanno ben altre ambizioni, sia dal punto di vista delle sponsorizzazioni, che da quello di rapporti più favorevoli tra fumo e arrosto.

Innanzitutto, Joost è un programma per computer a sé stante, che va installato (e ne è disponibile una versione per pc e una per mac). L’aspetto è futuristico, molto accattivante e, per il momento, decisamente vanaglorioso. Si presenta facilmente come la tipica televisione del futuro, immaginata da tanti romanzi di fantascienza: dal punto di vista dei contenuti, un fusione anche abbastanza riuscita fra youtube e la tv on demand; da quello estetico, uno schermo grande come quello del nostro monitor (e cioè, ormai, anche più di quello del vecchio televisore), ma cliccabile, aggiornabile, interattiva a un livello decisamente più alto di quello promesso, e non mantenuto fin dai primordi, dal digitale terrestre. È un possibile palinsesto continuamente modificabile dall’utente, secondo associazioni di idee fra programmi, generi e colori dei loghi che li rappresentano (magari solo la prima volta). Ci si accorge presto, però, che questa non è - come la net tv, invece, già è - una vera alternativa alla televisione: è un nuovo modo di vedere la televisione cui, tutto sommato, siamo abituati. Anche perché i canali, proposti come le tipiche playlist cui ci hanno abituato i software musicali, rispecchiano molto, troppo fedelmente la situazione di un tipico palinsesto da abbonamento a tv satellitare. È solo un nuovo modo di organizzarli, di distribuirli, ma sempre troppi trailer, troppi documentari, troppi videoclip. E anche troppi spot.

Dove Joost eccelle, ed è quasi insostituibile (per via della effettiva qualità video che il sistema riesce a raggiungere) è il caso dei canali dedicati al vecchio cinema. Come “Silent Movie” o “The really terribile film channel”, che arrivano a proporre pellicole i cui diritti d’autore sono o decaduti o insignificanti, ma che non hanno perso affatto il loro merito di essere la gioia di estimatori e gente insana di tutto il mondo. Per quanto Joost non presenti ancora contenuti in italiano, è già abbondantemente dotato di pubblicità, fra un programma e l’altro, nella nostra lingua. Cosa che ci fa sperare che presto potremmo provare la piccola grande gioia non semplicemente di cambiare canale, alla loro vista, ma di gettare materialmente in un bel cestino, seppure virtuale, la faccia o l’icona dei conduttori che davvero non abbiamo mai potuto soffrire. Per il resto, speriamo che le net tv italiane, e soprattutto quelle che producono informazione indipendente, riescano presto ad aprirsi uno spazio nel menu che offre questa piccola, grande novità nel campo della comunicazione visiva.

giovedì 22 novembre 2007

Rino Gaetano, tocca a Minoli riparare i danni della fiction



(in edicola il 21 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

La puntata de La storia siamo noi dedicata a Rino Gaetano è come una ventata d’aria crotonese sulle malefatte poetiche della recente fiction - prodotta dalla Rai, sullo stesso cantautore - che tanto sapeva di corridoio romano e poco ventilato.
Per quanto l’ottimo Giovanni Minoli non possa chiaramente esentarsi non solo dal tessere l’elogio di “quello sforzo produttivo”, ma addirittura dal chiamarne in causa uno dei principali responsabili (dirigente Rai fiction competente) – che ne attesta la qualità come un venditore di cibo avariato, quando l’abbiamo già digerito – la trasmissione ha almeno il merito di togliersi subito il pensiero di fare i conti con la fiction, e prendere il più presto possibile a intervistare gli amici e i parenti eccezionali che ebbe quello strano caso musicale. Su tutto, risaltano i racconti della sorella Anna, una donna talmente riuscita che, certamente, se Gaetano avesse potuto produrre di più, almeno una canzone indimenticabile gliel’avrebbe consegnata, magari in un attimo di particolare prossimità con la realtà. È una sorta di Gabriella Ferri al contrario, il suo Sancho Panza fintobiondo e sereno, un connettore con le cose terrene, eppure abbastanza “personaggio”, anche lei, da ricordargli magari, un tempo, qualcosa che anche della poesia gli era sfuggita.

E, oggi, senza di lui, somigliare tanto a una di quelle piccole star degli anni ’70 che si sono dignitosamente ritirate dalle scene, e sono le sagge del loro circolo di persone straordinariamente comuni. È sinceramente dispiaciuta per il trattamento che ha ricevuto suo fratello nella fiction, e si augura che pochi possano ricordarlo così come ne è dipinto: alcolizzato fino allo stordimento quotidiano, nel cliché dell’artista che per essere tale deve essere completamente travisato anche dalla maggior parte dei suoi fan, pur di essere o politicizzato o comunque categorizzato. Saranno anche dettagli, ma per lei sono le cose che contano di più, almeno perché, è chiaro, che di vivere sulla considerazione dei critici di oggi delle canzoni del fratello, non è che ne abbia tutta questa voglia. E, anche per la dolcissima persona di Amelia Conte, la promessa sposa del cantante, è forse un bene che i vari interventi siano solo benissimo montati fra di loro, e non avvengano tutti in studio. Perché alcune parole di Francesco Sardella (il dirigente di cui sopra) su come “tutte le storie sono fatte per essere interpretata e travisate”, forse la sorella di Rino le avrebbe prese con una discreta dose di incazzatura, ma Amelia se ne sarebbe più visibilmente e giustamente solo addolorata.

Momento culminante del breve documentario di Minoli l’intervista a Paolo Rossi che, nell’occasione del Sanremo 2007, cantò un brano inedito di Gaetano. Episodio che è stato fin’ora, insieme all’ormai famoso doppio cd con copertina “warholiana”, culto di teenager e giovani e ringiovaniti di tutte le età, uno dei migliori modi di ricordare questo cantante, così ribelle anche al solo successo che non eseguì mai un solo playback televisivo di sua canzone (e La storia siamo noi ce lo ricorda, proponendoci spezzoni di quasi ogni sua comparsata tv) senza bofonchiare qualcosa fuori sincrono, giocare con un suo vero cane, e deridere già allora anche questo bel documentario, anche e soprattutto perché lo esalta come un maestro del suo tempo e non solo.

mercoledì 21 novembre 2007

Una stella in mezzo al trash Giletti andrebbe rivalutato



(in edicola il 20 novembre 2007, anticipazioni e commenti qui)

Il cuore profondo della Domenica Trash all’italiana è illuminato dal coraggio di una stella, che brilla solo un’oretta: l’Arena di Massimo Giletti (su Rai Uno, nel primo pomeriggio). È un talk-show decisamente sottovalutato, per il garbo con cui è condotto, il contesto voltastomaco in cui è situato, ma soprattutto per le evidenti difficoltà di reagire alle piccole, grandi vessazioni, in termini di scelta degli ospiti, che evidentemente un destino crudele, degli autori in rivolta o egli stesso alzatosi male, impongono al conduttore di fronteggiare. Massimo sa di avere a disposizione un parterre da Leggenda degli uomini straordinari (il film in cui Dorian Gray in persona aiuta Tom Sawyer a tenere a bada Mr. Hyde, con l’aiuto del Capitano Nemo, che è vivo e lotta insieme a loro). Cioè: un nutrito gruppo di persone che dovrebbero essere solo frutto della fantasia, e invece sono lì, e non c’entrano niente fra di loro. Ma mai che si dia per vinto, Giletti, neanche quando è fra un’intervista e una pausa pubblicitaria che si rammenta, guardandosi le spalle, che Klaus Davi ancora non ha parlato.

La puntata di questa domenica, ad esempio, è dedicata al dramma di cronaca sportiva di domenica scorsa, e agli scontri fra tifoserie e poliziotti che ne sono conseguiti. Giampiero Mughini siede al suo posto, torto in una posizione da crampo passivo, perché ne procurerebbe anche a chi solo lo guardasse con attenzione: posizionato allo stesso modo da anni, forte di un qualche voto - che deve aver fatto a chissà quale divinità femminile degli anni sessanta - di non confidare mai a nessuno di quando gli scappi di andare al bagno, e men che meno in diretta televisiva, giustamente. Come tutti gli altri, all’occorrenza di un’inquadratura, esegue il suo tipico gesto: per lui, è un’indecisa smorfia di dolore e di piacere malcelato insieme, levando gli occhi al cielo, e la mente al negozietto vintage che lo rimetterà in contatto con la realtà, lunedì pomeriggio, dopo questo incubo, tuttavia sopportabile, di finire il plafond di pelo sullo stomaco. Si dimena leggermente, e poi torna in posizione d’attesa, come in un palleggiare a tennis fra lui e la coscienza di giornalista e scrittore che non si accontenta.

Alba Parietti è differente. Non può muoversi, e cerca di parlare il meno possibile, perché ha una scollatura fino all’ombelico, quasi cinquant’anni, e nessuna voglia di ricordarci anche questa volta che è una donna “ottimista e di sinistra”, come nell’immortale canzone di Lucio Dalla. Suor Paola ascolta in religioso silenzio. La nostra relativa abitudine a tutto questo, finisce per rendere la ciliegina sulla torta della situazione, non l’enorme pinguino dorato, che chiude il cerchio accanto a una suora tifosa della Lazio, ma il fatto che si definisca Paola Ferrari uno dei volti più importanti del giornalismo sportivo italiano. Paola è collegata in esterna, ed è credibile e preparata come sempre: è proprio questo il punto. Fra tutto questo, solo Massimo è ancora attaccato alla realtà. Solo un superficiale direbbe, a questo punto: “annamo bene”. Perché è nella sua persona il diaframma forse sottile, ma ancora abbastanza efficace, fra rapporto con la terra ed elogio della follia, che permette a tutti di essere trattati con la stessa condiscendenza, come se davvero si fosse in una trasmissione normale, o se tutti potessero esprimere opinioni loro, e non quelle del ruolo da presepe mediatico cui li ha inchiodati per sempre una caratteristica somatica o un cenno biografico.

lunedì 19 novembre 2007

Scrubs, medici al rovescio



(in edicola il 17 novembre 2007 - anticipazione e commenti qui)

La sit-com Scrubs, su Mtv il giovedì alle 21 (e su Fox Italia il sabato pomeriggio), continua a far danni non più solo nei confronti di E.R. (“medici in prima linea”), di cui era la parodia originale e volontaria (“medici ai primi ferri”), ma anche di tutte le altre serie come House e Grey’s Anatomy che, col tempo, della formula e del successo dei casi di E.R. stesso sono diventate parodia purtroppo del tutto involontaria. Come in E.R. si rappresentava la rapidità e l’efficienza di medici già nell’età del pronto soccorso – e nella stagione degli interventi – in Scrubs i protagonisti sono medici inesperti all’epoca della specializzazione, nel vivo della tradizione delle varie scuole di polizia e di pompierato. Le stesse che, al cinema e in tv, avvicinano gli spettatori a mondi apparentemente lontani, che di norma, invece che divertirli, li manganellano o, bene che vada, gli sfondano le porte di casa. È singolare, qui, l’adozione della camera singola, nelle riprese, e non multipla, come è di norma in una serie di questo tipo. Dunque, tutto il montaggio prende le mosse da quanto ha ripreso una sola unità, in ordine non sequenziale.

Questo è il risvolto tecnico di una delle caratteristiche stilistiche più originali della serie: le vicende sono presentate dal punto di vista del protagonista, J.D. Dorian, che in sostanza le “monta” secondo criteri personalissimi e spesso mescolando realtà, sue idee e sensazioni e il “daydreaming” che l’ha reso un personaggio di culto. Scrubs mette in scena il mondo clinico cui ci ha abituato la televisione in modo del tutto capovolto, e dunque, spesso, molto più aderente alla realtà. I medici possono contendersi effetti personali di pazienti passati a miglior vita, fino a che uno di essi, e per giunta quello dotato delle migliori quantità di vestaglie di seta, non riemerge da un’interminabile seduta alla toilette, che l’aveva momentaneamente dato per spacciato o morto presunto. L’unico non-medico protagonista, l’inserviente Janitor, ottiene facilmente la complicità di malati anche gravi, per scherzi che opera contro il personale medico più serioso e indaffarato, in un vero e proprio simbolo dell’azione di Scrubs contro Meredith Grey.

Per fare un esempio, realizza telecomandi che simulino il suono delle macchine quando registrano un encefalogramma piatto, allarmando un professore sovrappeso. Che, però, risulta molto più allarmato quando, voltatosi di spalle, a burla compresa, ascolta lo stesso telecomando eseguire la tipica suoneria di camion della nettezza urbana in azione. Il tutto senza quasi mai apparire di cattivo gusto, ma spesso come un “memento mori” per noi e per molte serie rivali. Dunque, ci ricorda quanto siamo noi transitori su questo mondo, strappandoci un sorriso sul tema della morte e della malattia, che un attimo prima erano tabù, o avevamo solo voluto scordare. E, al tempo stesso, quanto riescono ad essere banali e insipide le altre serie quando, pur entrando nel dettaglio medico fino al massimo del realismo anatomico consentito all’ora di cena, ci mostrano tanto poco di noi stessi, e di come concretamente la possiamo pensare riguardo ai camici e ai pigiami che popolano gli ospedali.

sabato 17 novembre 2007

Heroes, la storia magnifica di un insuccesso solo italiano



(in edicola il 16 novembre 2007 - anticipazione e commenti qui)

Heroes è giunto all’ultima puntata della prima stagione doppiata male, ed è ormai tempo di considerarlo, probabilmente, il serial più interessante dai tempi delle primissime puntate di Lost. L’insuccesso di ascolti di questa altissima serie fantascientifica è stato un fenomeno tutto italiano che, d’altro canto, ha avuto due risvolti positivi, uno solo sociologico e uno socioculturale. Da una parte, costringendo i capi spirituali di Italia Uno prima a interromperne, e poi cambiarne drasticamente l’orario di programmazione, di modo che passasse da domenica in prime time al mercoledì in seconda serata, ha reso possibile l’uscita pre-lunedì dei molti appassionatissimi che avevano smesso di andare in sala giochi, pur di non perdere una puntata delle avventure di Niki Sanders e Peter Petrelli. Dall’altra, ha costretto i suddetti appassionatissimi, una volta minacciata e poi attuata la sospensione della messa in onda, a sfoderare tutto l’inglese scolastico che avevano nel cassetto, turarsi la coscienza e scaricare da Pirate Bay le puntate rimanenti. Fino alla fine della prima stagione e oltre, verso nuovi confini: le prime sette della seconda già trasmesse negli Usa.

Dire che questo sia avvenuto in parte per venire incontro alla facoltà mentali degli spettatori medi italiani, non è solo riduttivo (rispetto ai meriti della serie, che sono notevolissimi, e valicano con facilità anche i limiti poetici e tematici che di solito sono posti ad una serie fantascientifica), ma è anche impreciso: è avvenuto esclusivamente per venire incontro a quelle stesse facoltà mentali, che consentono all’Isola dei Famosi di non essere abbandonata dalle telecamere, e lasciata divorare da creature marine mostruose e insorte, con tutti i suoi abitanti, inclusi quelli eliminati. Dal punto di vista del significato (le bellissime immagini cui ci ha abituato parlano relativamente da sole), Heroes è eccezionale perché umanizza e razionalizza una lunga tradizione di fumetti di basso livello – e di pellicole tratte da fumetti di infimo livello – in cui i cosiddetti superpoteri erano solo armi straordinarie a disposizione di qualcuno di sfortunato nella vita, in attesa di rifarsi nella fiction. Un clichè ripetuto centinaia di volte, in una sorta di revanscismo para-cristiano dei deboli e secchioni sui fashion e normo-dotati (giacché, in quell’ottica, i secchioni sono solo o sottosviluppati o volano).

Heroes, invece, parla di gente straordinaria, sì: supereroi, persone che leggono nel pensiero, rigenerano loro arti e saltano la staccionata senza l’olio Cuore. Ma il punto, la novità, è che ci si chiede – e ci si dà una risposta, nel corso delle puntate – da dove quei poteri provengano. E questa risposta solo a un livello – dantescamente parlando – letterale che viene comunicata dai fatti: vale a dire, un esperimento di ingegneria genetica che ha modificato le facoltà fisiche e mentali dei nostri eroi. In realtà, basta salire di un livello di lettura, e ci rendiamo conto che niente è dato per caso ad essi. Come un destino metaforico ha fatto sì che, ad esempio, Claire Bennet fosse una studentessa apparentemente fragile, che può guarire da ogni ferita fisica. Hiro Nakamura è il classico colletto bianco che indosserà il kimono d’oro, ma con che psicologismo il suo dono è quello di andare avanti e indietro a piacimento nello spazio e nel tempo, quando ha passato la prima parte della sua “carriera” fra i divisori di un ufficio grigissimo. È un ricco gioco di rimandi e significati, che rende Heroes è una delle più belle parabole contemporanee sul talento e la gestione di esso; sull’importanza dei singoli nel destino di un gruppo; sulla verità che non sempre sta dalla parte con cui crediamo di stare noi (e questo lo scriviamo perché anche noi, dal canto nostro, abbiamo scaricato un po’ troppe puntate).

venerdì 16 novembre 2007

Bombay, il programma "impegnato"



(in edicola il 15 novembre 2007)

Il nuovo programma di Gianni Boncompagni non è solo la vendetta, servita ancora tiepida, di Ambra Angiolini. In realtà, Bombay è probabilmente il programma più “impegnato” della televisione italiana, e non solo non lo sa e non lo vuole sapere ma, se pure lo sapesse, non ci terrebbe neanche un po’ a farlo sapere in giro. È vero che l’Angiolini, di fatto, è tornata a lavorare col suo vecchio scopritore, e non più da pupazza radiocomandata, come ai tempi di Non è la Rai, controllata com’era dalla distanza di una cabina di regia apparentemente invisibile, ma onnisciente e onnipresente. In Bombay, oggi, proprio lei, quel simbolo riuscitissimo della televisione sbagliata (solo per posa e per copione, bella senz’anima; anzi, peggio: bella con l’anima di un settantenne) torna al fianco di Boncompagni proprio al posto di comando, che però, nel frattempo, è diventato lo studio stesso in cui è ambientata la trasmissione. Il backstage di un film o di uno show, di solito, ci dimostra o quanto è difficile realizzare quel prodotto, o gli errori che sono stati commessi nel realizzarlo. E un backstage incompiuto o fallimentare che diventi show, si sa, è ormai un sottogenere anch’esso, cinematografico e televisivo: basti pensare ad “Amici di Maria De Filippi”.

Ma questa volta, in Bombay, si ha il coraggio di andare oltre, e di dimostrare attraverso l’improvvisazione totale - condotta ad arte da un piccolo grande genio che non può perdere quasi nulla - quanto può apparire facile mettere su un programma Tv, e quanto è difficile comunicarvi realmente qualcosa, come nella migliore tradizione di un certo teatro dell’assurdo. Aggiornato ai tempi in cui solo le promesse non mantenute contano davvero, mentre i sogni si realizzano tutti e subito sullo schermo di un videogioco, o quello di un cellulare ad alta risoluzione. E, dunque, ospitare Ignazio La Russa che si finge barbiere, senza che alcun vero barbiere si sia trovato, disposto a fingersi Ignazio La Russa, e via così, fino a Sabelli Fioretti che farebbe il padreterno, e tenta di portare un ordine fra tutti quanti, vestito di una tunica bianca su un trono dorato.

È un ritorno alla scoperta, anche solo tecnica, prima ancora che contenutistica, di uno strumento, come la telecamera, che ha detto talmente tanto, concludendo talmente poco, che pare, almeno agli occhi di Boncompagni, non avere altro presente che questo: tornare a gioie semplici, al piacere dell’idea stessa di trasmettersi, di trasferirsi magicamente e irresponsabilmente nelle case dei soliti ignoti, o per qualche istante nel loro cervello, talmente usurato dall’abitudine al peggio, che solo Tinto Brass vestito da suora alla Paolo Villaggio (con vele felliniane), può rianimare con un bocca a bocca osceno, pur tenendo un enorme cubano fra le labbra. In Bombay il niente (i politici nonsensical, attaccati più a un nome falso che a un’opinione) e il suo contrario (la fisicità flagrante delle giovani e delle ballerine, che provan e riprovano un tango che non sarà mai realmente ballato) giocano a rimpiattino con i ritmi, le pause, le noie e i piaceri televisivi cui ci siamo avvezzi. E il bello è che tutto questo non è affatto un parodiare, un capovolgere la verità, in nome di una risata che raramente arriva (e non solo per le battute infelici, ma anche per quelle riuscitissime: come nella migliore tradizione dei comici impegnati) ma, ahinoi, la verità stessa.

giovedì 15 novembre 2007

Exit, se Ilaria D’Amico è l’unica uscita di sicurezza



(in edicola il 14 novembre 2007)

Lunedì, accattivante puntata di Exit – il programma di Ilaria D’Amico dedicato a Ilaria D’Amico – sui temi della vecchia crisi dell’università e il nuovo fiorire della prostituzione. Davvero molto ben pensata l’accoppiata, come del resto la presenza in studio di rappresentanti di entrambi di questi due mondi. Che, da sempre, si studiano, si osservano, spesso si scambiano saperi e trucchi, e trovano del resto nell’intelligente ma bella Ilaria una moderatrice perfettamente in parte. La soluzione ai due problemi (cali di prestazioni di professori e studenti, ed iperlavoro delle passeggiatrici), anche se fra le righe, sarebbe è la più semplice, naturalmente: quella, appunto, di scambiarsi le competenze: usare un marketing decisamente più aggressivo per promuovere i corsi di laurea, da una parte; e perdere clienti in lungaggini burocratiche e demotivazione del personale, dall’altra. Ma il bello della trasmissione è che Ilaria ci fa arrivare solo con grande senso della suspense a questo assunto fondamentale, così carico di significati per il futuro del nostro paese, tanto dal punto di vista del controllo delle nascite, quanto da quello della riduzione della fuga di cervelli.

Fatti alla mano, Exit – Uscita di sicurezza (su la7 ogni settimana), vanta fra i migliori rvm dei talk-show d’informazione italiani, e la scenografia più cervellotica e incomprensibile, in questo caso, anche andando a paragonarlo con alcuni dei quiz del tardo pomeriggio. Fra i servizi, stavolta colpisce soprattutto quello che comincia dall’aula magna della Facoltà di Fisica della Sapienza, e finisce, con grande senso delle proporzioni, nel gabinetto di Mussi, ministro della Ricerca, idealmente traslato nello studio del programma. Non prima di alcune formidabili dissolvenze incrociate, che lo vedono comparire qua e là fra gli scranni occupati, e sorridere come un mega-bidello molto paterno alle urla e agli slogan degli studenti. E davvero niente male anche la trattazione in stile “Iene”, ma più giornalistiche e meno arrapate, del secondo tema: il mercato del sesso. Tema solo leggermente meno scabroso di quello della compravendita di ammissioni a medicina. Il momento più alto spiritualmente di questa parte della trasmissione è senza dubbio quando Stefania Prestigiacomo afferma, testualmente: “Una volta le tenevano con le catene, oggi le picchiano: è sempre una condizione di schiavitù”. E non basta l’onestà intellettuale di Cinzia Dato a risollevare il livello, a questo punto.

Sulla scenografia, infine, come dicevamo, non siamo molto sicuri. Dovrebbe in qualche modo rappresentare una fabbrica simbolica, intricata di macchinari e gente del pubblico come prigioniera, sempre molto simbolicamente. Purtroppo, alcuni tralicci dell’elettricità (speriamo, altrettanto simbolici), non risultano molto d’aiuto nella comprensione di questo gioco quasi escheriano-borgesiano, fra spazi interni ed esterni concatenati o, meglio, incasinati. Allora, in tanto mistero e buio, vogliamo semplicemente credere che dopo tutto questo mistero, come al termine di uno di quei tunnel che annunciano una qualche vita oltre la vita terrena, ci aspetti l’unica uscita di sicurezza su cui possiamo davvero contare: Ilaria D’Amico stessa, vestita di un rosso che la fascia come una di quelle caramelle che annunciano, già dalla confezione, il piacere che avremo nell’assaporarle, solo al termine di tanto patire per trovarle sullo scaffale giusto.

mercoledì 14 novembre 2007

La fiction degli errori e dello spreco di talento



(in edicola il 13 novembre 2007)

Nella fiction su Rino Gaetano lo spreco di talento degli interpreti avviene in un ordine di grandezza molto importante. Certo, non sarà evidente come nell’ultimo Guerra e pace (stiamo pur sempre parlando di Chiatti e Santamaria, per quanto cantino spesso), ma basta perché i fan più hardcore del cantautore calabrese possano cominciare ad aggiungere, alle celebri litanie laiche dell’immortale brano Ma il cielo è sempre più blu: “C’è chi si gira nella tomba”, canticchiandolo in cuor loro, forse con leggero cattivo gusto, ma non del tutto a torto. I grossi errori della mini-serie, in verità, paiono facili da schematizzare. Il primo è lo stesso che si commette puntualmente ogni volta che un critico, uno storico o uno sceneggiatore mediocre compie un approccio insincero e, appunto, mediocre alla biografia di una persona eccezionale, che non comprende ma che deve fingere di comprendere per lavoro. E vale a dire il tipico effetto Caravaggio, che per secoli fu ritenuto, prima ancora che un pittore sublime – per quanto profondamente immerso nella realtà – da sostenitori e detrattori, rispettivamente un genio o un folle per lo stesso, identico motivo: perché il ragazzo beve troppo, è strano, il prezzo della creazione è stata una vita insalubre, consideriamolo maledetto.

Fatte le dovute proporzioni, questa è una semplificazione che, naturalmente, non vale neanche per Gaetano, come in genere non valgono mai le semplificazioni dettate non dalla sintesi o dalla riflessione, ma dalla voglia di celare alla meno peggio l’equivoco, la mistificazione o, misfatto ancora meno depenalizzabile, nel 2007: il didascalismo. Nemmeno il popolo televisivo, per quanto in basso possa cadere, può credere alla scena di apertura della fiction, in cui la recitazione di Claudio Santamaria (una delle poche promesse non ancora mancate del nostro cinema, da quando si è deciso di smettere di sopravvalutare, senza che questo sentimento fosse particolarmente ricambiato, l’attore Stefano Accorsi) lotta invano contro la scrittura dei suoi sceneggiatori. Lunghe sequenze lo portano nientemeno che a ubriacarsi in casa sua negli anni ottanta, mentre tutto ci sembra talmente normale che solo la tipica colonna sonora strumentale da fiction italiana, interrompendo il brano di Rino dei titoli, Mio fratello è figlio unico, riesce nel compito, tristissimo ma necessario, di ricordarci che stiamo guardando proprio una fiction italiana.

Raccontare con questo stile l’opera e la poetica di un uomo che ha saputo tramandarci, ad esempio, il più delicato elogio di un tema delicatissimo di per sé, e raramente trattato, come la masturbazione femminile (Sei ottavi), attraverso quella perfetta serie di metafore concentriche dell’atto in sé (che riescono, in fine, quasi a visualizzarne graficamente l’atto, e i desideri che genera e da cui è alimentato al tempo stesso), non è solo impreciso e insicuro, è un atto vandalico contro la bravura e gli sforzi per esercitarla. Altri punti: non si può rappresentare Rino Gaetano che pronunci “Gianna è commerciale”, con lo spirito involontario di una di quelle parodie dei “ggiovani” di dieci anni dopo, alla Corrado Guzzanti. Non si può rappresentare Rino Gaetano che si faccia inseguire da Laura Chiatti, facendole promettere tanti baci quanto sono le strofe che canteranno insieme di una sua canzone, con lo spirito, stavolta volontario, di una di quelle parodie della letteratura di un giovane di dieci anni prima: Federico Moccia. Punto.

lunedì 12 novembre 2007

Enigma, la prova dell’esistenza di Augias



(in edicola il 10 novembre 2007)

Enigma di Corrado Augias (Rai Tre, 23.40, il giovedì) resta l’unica prova della possibilità della vita in tv di un bravissimo giornalista italiano, cui riesca ancora di essere trasmesso a orari non marzulliani – e non necessariamente reincarnandosi sottoforma di opinionista all’Isola dei Famosi – ricostruendo delle storie, ben collocate nella storia, e senza perdere troppo in interesse, pur coniugando serenamente il maggior numero di verbi possibile. Almeno quando il tema della puntata è ben scelto. Ed è il caso della puntata di questa settimana, che si occupa dei lati in ombra della vita di Grace Kelly in Grimaldi di Monaco. Augias divide lo spazio a disposizione fra filmati molto ben scritti e una sua forte presenza nello studio, che viene personalizzato di puntata in puntata, e questa volta ospita, come elemento chiave, un modello di automobile identico a quello che rese la principessa vittima di un incidente e di una fine misteriosi.

I dubbi e le ipotesi sul perché di quella morte (fino alla più “telegenica”: esoterismo, o quasi incantesimo, come sostiene la sorella di Grace) sono presentati da un conduttore che apre lo sportello della vettura in studio, ne constata la pesantezza, la durezza del volante, come simbolicamente non pretendendo di entrare nella storia o nella verità, ma solo nella versione di essi che lui cerca di darci, giacché l’originale della macchina è andato distrutto nell’incidente stesso – come probabilmente anche quella verità.
Apprendiamo che poco tempo prima della sua morte la principessa sarebbe entrata e uscita dalla cosiddetta setta del Tempio solare, che richiedeva 20 milioni di franchi per l’iniziazione, e che comprendeva quindi membri dell’alta finanza europea dalle strane abitudini. Come, ad esempio, quella di suicidarsi nel numero di 53 elementi qualche anno più tardi, per quanto allora sparsi in varie parti del globo, soprattutto Canada.

La mancanza di indagini sull’incidente, il respiratore subito staccato, la stessa automobile passata inosservata come prova di qualcosa che non fosse semplicemente fatalità, fanno inizialmente temere il peggio. Si prosegue con le dotte annotazioni dell’esperto di religioni (quantomeno alternative) Massimo Introvigne – sul fatto che i membri di quella particolare setta non gradissero particolarmente il mondo terreno, destinato secondo loro a una fine atroce, e che si invitassero vicendevolmente al suicidio, soprattutto se effettuato in un certo momento astrale che li avrebbe trasferiti tutti sul pianeta Sirio, a miglior vita. Ma quando Corrado prende a dare le sue risposte a queste domande, la scenografia sposta l’attenzione sullo stemma dei Grimaldi, che occupa ben due monitor e un pannello alle sue spalle, e quell’aquila bicipite fa perfettamente al caso del suo pensiero, necessario, su come, semplicemente, non ci siano rose senza spine.

E, che tutto questo abbia o meno a che fare con la morte della moglie di un sovrano, finiamo per riflettere più generalmente su come le migliori attrici siano già molto principesse anche nella vita, e di come tutte le principesse siano del resto un po’ attrici, anche quelle che non hanno nel curriculum diversi film indimenticabili, e cambiamo canale preoccupati soprattutto di un segreto, stavolta, di Pulcinella: come mai Augias non è un uomo di punta della nostra televisione, come dovrebbe invece essere.

Quando Bruno Vespa si mette la mano in tasca



(in edicola il 9 novembre 2007)

Notevole puntata di Porta a porta, mercoledì, grazie anche a un tempismo perfino superiore alla media nelle scampanellate che, tradizionalmente, annunciano l’arrivo di un nuovo ospite. Elemento che resta uno dei concept più rivoluzionari alla base del programma, insieme alla faccenda di riuscire a parlare con gli stessi ospiti di un delitto irrisolto, di una finanziaria difficoltosa e delle astinenze dal sesso di Luisa Corna. Il fatto che più o meno da sempre si sappia che quei tempi di ingresso sono scanditi da Vespa stesso, invece che togliere fascino a quella ardita simulazione di vita, consegna agli spettatori più smaliziati – o semplicemente annoiati – la possibilità di concentrare la propria attenzione sui movimenti della mano del conduttore nella tasca che conterrebbe il mitico telecomando, vero imperium, nuovo simbolo del potere dei tempi televisivi.

A riguardo, sempre eccezionale la presenza di Paolo Baroni, l’indimenticabile Collo Secco di tanti film ambientati a Cortina o a Forte dei Marmi, ora maggiordomo instancabile per Vespa: l’unico italiano con il diritto/dovere di non seguire neanche una parola di quello che si dica in studio, perché concentrato per tutto il tempo esclusivamente sul suono del detto microfono e su ciascuno dei fatti suoi. Le donne nel salotto, Catherine Spaak, Michelle Hunziker e Giulia Buongiorno appaiono come le figure di un gioco a trovare l’intrusa, in questo contesto in cui si parla di donne ambitissime, che non riescono a essere dimenticate o solo desiderate da uomini che fanno del loro rifiuto – o della loro distanza – un autentico problema psicologico-esisteziale: lo stalking. Ma il mistero è svelato prestissimo: la Buongiorno compare come fondatrice della onlus Doppia difesa, che si occupa della tutela di casi come quello di Michelle e di tante altre donne oggetto di questa patologia.

Il problema è effettivamente molto serio e sottovalutato dalla legge, in quanto è purtroppo la base e la preparazione per la maggior parte degli omicidi premeditati. I servizi preparati sul tema sono molto ben scritti e, come al solito, tentano eroicamente di contraddire con i fatti l’atmosfera inevitabilmente troppo glamour o disincantata che si finisce per respirare nello studio, per via degli ospiti assolutamente ingiustificati e palestrati come, in questo caso, Manuel Casella (compagno di Amanda Lear).
Stavolta un punto di contatto fra la realtà esterna e l’inevitabile fiction interna è fornito da una simulazione di molestia realizzata per Vespa da due attori. Un giovane vestito di un chiodo nero (simbolo del male) chiede l’ora a una ragazza alla fermata dell’autobus, che indossa un maglione a scacchi (segno del bene). Il giovane insiste a parlarle fino a che non interviene uno psicologo.

Ma ormai il danno è fatto, perché abbiamo capito che fare una puntata su: maniaci, guardoni e pedinatori di vario tipo, è un rischio troppo forte di autobiografismo – pur simbolico, o solamente deontologico/metodologico – da parte di un Vespa comunque in ottima forma e spesso ai massimi storici, almeno dal punto di vista dei doppi sensi a sfondo erotico. Un altro ospite, reale malato di stalking, è costretto dalla psiche a seguire, farsi vedere ripetutamente e senza invito, e in senso lato infastidire delle persone che non lo desiderano in senso stretto, può essere insidioso, sulla carta, per un conduttore che, seppure in via metaforica, ma su scala nazionale, da un decennio col suo pubblico non fa altro.

venerdì 9 novembre 2007

Cosa sarebbe il Ballarò di Floris senza la sua premiata claque?



(in edicola l'8 novembre 2007)

Le cose che ci piacciono di più di Ballarò (sesta edizione, il martedì su Rai Tre in prima serata) sono da sempre il grandioso muro-scenografia e il pubblico. Un tempo, anche quella certa ruvidezza di Floris, quell’intollerenza alla mediocrità e al pressappochismo anche terminologico, da conduttore ancora inesperto di televisione, ma accademico di politica, che preferiva, ogni volta che gli fosse possibile, il più umile e preparato degli ospiti in collegamento, rispetto al potente ministro niente affatto tecnico in studio.
Ora, molto più sciolto e conosciuto, rasenta ormai una conduzione televisiva classica, nei tempi e nei modi dell’esperienza acquisita, ma sempre lungi da certe facili tentazioni di vespismo, che pure un ruolo come il suo devono presentare come allettanti sirene, superate le colonne d’Ercole del successo e di molte pubbliche relazioni. Il programma si apre con una sigla animata che presenta il tema della decorazione della scenografia, e dunque della puntata, realizzata da Lorenzo Terranera, con la puntualità e la presenza di contenuti da vignettista navigato, ma anche la grandiosità di scala da artista a tutto tondo. La sigla altro non è che una sorta di backstage della realizzazione del muro, che sintetizza, dal foglio bianco al colore, i tratti che questo illustratore azzeccatissimo esegue ogni settimana.

Potremmo quasi dedicare un articolo a ogni muro, che comunica da solo più di interi programmi analoghi a Ballarò, concorrenti diretti o separati in casa Rai. Stavolta, tutto comincia con una linea dritta nel mezzo dello schermo, che pare dapprima una strada, che scorra sicura e determinata nel paesaggio che le si va disegnando intorno, elemento dopo elemento. Ma appena anche il cielo che le fa da sfondo è terminato, e la vera strada, capiamo, è quella da cui proviene l’osservatore. Che, a sua volta, è osservato da una moltitudine di gente: operai, studenti, giovani madri, bambini. Quella che credevamo una strada si è trasformata nella barriera di un passaggio a livello, che separa quella gente da noi, e da un ferroviere come stupito di quella distanza, che ci guarda preoccupato come un padre di famiglia o un sindacalista di coscienza guarderebbe il capo o il politico di turno che potrebbe dare il comando perché quella barriera si alzi, ma non lo dà. Dal canto suo, adagiato proprio in questa scenografia, il pubblico in studio di Ballarò è un altro piccolo fenomeno mediatico, perché uno dei più liberi e schierati al tempo stesso.

Floris ha imbroccato un uovo di Colombo per il problema decennale dell’applauso finto nei talk-show politico-economici. A volere solo applausi veri, e invitando molto spesso Tremonti, si rischia il silenzio, al termine delle battute, con tutto il rispetto per il suo senso dell’umorismo da tributarista lombardo – per quanto evidentemente andato a scuola di conversazione da Berlusconi, mentre lui prendeva appunti su debito pubblico e pornotax. E allora le due parti in causa – in cui necessariamente si divide ogni puntata – godono ognuna di una sua specie di claque particolarmente motivata, e disposta anche geopoliticamente secondo la sua preferenza. Studenti, soprattutto scienze politiche Luiss, la scuola da cui proviene Floris, da una parte, Forza Italia Giovani e suggeritori e assistenti di vario tipo dall’altra, in un equilibrio di entusiasmo (o mancanze di esso) che spesso rasenta il simbolismo della democrazia e delle pari opportunità.

giovedì 8 novembre 2007

I mattinieri diano una chance al caffè di Corradino Mineo



(in edicola il 7 novembre 2007)

Chi si alzi spesso alle 6.30 del mattino, e non abbia mai dato almeno una chance a Corradino Mineo (Il caffè di Corradino Mineo, appunto) di essere suo compagno di colazioni, non merita l’onestà intellettuale e la dedizione di questo solido professionista.
Quest’uomo è inviso a molti per l’idea che si sono fatti che sprechi denaro pubblico, nel realizzare il canale Rai News 24, con 100 giornalisti, 35 milioni di euro l’anno, e solo 3000 ascoltatori al giorno, secondo le accuse più gravi del Giornale. Corradino non avrebbe quasi bisogno di replicare ad esse urlando che quella cifra di ascolto non tiene conto dei visitatori del sito e degli ascolti in chiaro su Rai Tre: il suo valore non può che andare oltre la semplice statistica, e forse anche il dato sensibile in generale.
Resta il fatto che il canale che dirige è lungi tanto dall’essere una Teleroma 56 nazionale, quando, del resto, dall’essere la Cnn italiana, come si era pensato di dire all’inizio, senza che neanche i parenti più stretti di Mineo, da Palermo, ci avessero creduto, nemmeno per le prime 24 ore delle molte a venire.

Non c’è solo l’appuntamento delle 7, quando, pure, viene il turno di Corradino e del Caffè, e quindi la redazione si ferma, alla marchese del Grillo, c’è da credere, dopo tanta fatica. Momento unico, che Mineo con i suoi noti cali di voce da compagno di classe puberale, e ospitate miracolose, dato l’orario, ha saputo trasformare la quarta o quinta rassegna stampa – in ordine cronologico, non d’importanza – per i telespettatori italiani, anche nel salotto del suo canale. Ieri un Aldo Cazzullo particolarmente ammirato dal modello di auricolare di Corradino, presenta il suo ultimo libro Outlet Italia. I notiziari – fra cui il più seguito è proprio quello delle 6.30, perché trasmesso anche su Rai Tre, poco prima del Caffè – vengono scanditi con una snellezza introvabile in altri telegiornali italiani. Nella maggior parte dei casi, il titolo è anche la notizia, e dura poco più di trenta secondi, come uno spot pubblicitario di approfondimenti sullo stesso sito web del canale o altri telegiornali più generalisti o spogliarellisti.

Dei collegamenti con giornalisti inviati all’estero, soprattutto di provenienza Rcs, invece, si riesce a dire che riescano facilmente, data una loro ora locale spesso più felice che in molti altri casi, ad essere più saldi e sicuri di un classico corrispondente di giornale Rai mainstream. Chi ha dimenticato, ad esempio, i mitici reportage del vecchio Del Noce nel TG1 dell’una da noi, sette del mattino a New York. Non manca, in questo stralcio in chiaro, l’intoccabile e amatissima radiofonica Emanuela Falcetti, dagli studi di Radio 2, sempre più a suo agio anche nell’uscita video, che le permette concretamente e ormai quotidianamente di ricordare una professionista sexy della web cam colta in un momento di particolare riposo. Come in un suo lato b, non solo audio, in cui del resto la sua competenza in fatto di rassegna stampa ragionata (la sesta o settima, a questo punto) non viene meno neanche per un titolo. Ieri, la notizia della mattinata, la morte di Enzo Biagi, trova una copertura molto completa anche solo pochi minuti dopo le 8, con una serie di coccodrilli video anche molto recenti, come quello col ricordo commosso di Ferruccio de Bortoli buttato giù dal letto, che ne sottolinea soprattutto il coraggio l’indipendenza anche davanti a scelte difficili come il coraggio e l’indipendenza.

mercoledì 7 novembre 2007

Il Decameron di Luttazzi. Un varietà di coscienza



(in edicola il 6 ottobre 2007)

E' molto difficile indovinare cosa cercheranno di demolire o oscurare di più del nuovo one-man-show di Daniele Luttazzi, se i monologhi o il resto. Perché sempre di un solo uomo si tratta, sebbene la formula televisiva si sia innovata, e di molto, includendo nel suo corso anche sketch più o meno corali e canzoni di testa e di coda sì scritte dal vero Daniele, ma evidentemente interpretate o da una versione di lui posseduta da Luca Sardella, o da una reincarnazione dello stesso che ha studiato un po’ d’inglese e molta medicina. Non è più solo un talk-show interiore: è un varietà di coscienza. In Decameron, l’autore è tutto, e niente esiste di per sé all’infuori di lui e di un testo scritto rigorosamente e perentoriamente, con un’autorità su chi lo interpreti e quasi anche su chi lo ascolti solo che aveva eguali solo, rispettivamente, in Gianni Boncompagni che dettava le sue volontà ad Ambra Angiolini (ora pure lei su la7), e nei seni ipnotici delle signorine dei telefoni erotici notturni.

Allo stesso modo che nel teatro di Oscar Wilde, in cui perfino le vecchie aristocratiche più compite, è come se parlassero sempre e solo con la stessa voce, e sono dotate dello stesso senso dell’umorismo del loro autore, così nei “dialoghi platonici” anticlericali orchestrati da Luttazzi per Decameron, come in ogni altra gag, Luttazzi è in ogni voce e in ogni faccia, anche come ritorno ad una trapassata autorialità - monocratica e onnipresente - che sfugga alla nuova televisione, sempre più rilassata nei modi dell’improvvisazione, o dello sfruttamento, ormai, dell’improvvisazione altrui. Quello che Marco Paolini ha fatto con la contaminazione definitiva fra televisione e teatro (cosa che neanche le più coraggiose puntate di Forum possono più), Luttazzi fa ormai con la performance più strettamente artistica e, nella fattispecie, tardo-dadaistica. Che lo vogliamo o no, Decameron ha davvero spostato di un bel po’ più in là il confine del televisibile. Mai si era rappresentata così cinicamente la politica italiana, o realisticamente la morte. O, comunque, mai le due cose erano state così simbolicamente accomunate e fatte l’una metafora dell’altra.

Solo un medico come Luttazzi direbbe così di certe cose. Neanche Veronica Lario saprebbe parlare di Berlusconi con tanto distacco. In questo, Luttazzi è il più perfetto anti-Grillo: perché convince di più, e suda tanto meno. E non si guarda in faccia a nessun politico, ovviamente, come proprio la morte fa con tutti gli altri, del resto. Tanto Berlusconi è doverosamente spernacchiato da un satiro che gli ha vinto tutte le cause, così Prodi è passato al colino da un satiro che pure gli ha votato a favore. Il culmine della prima puntata (sabato scorso) lo si raggiunge nella sit-com “A babbo morto”. Mai, dai tempi degli Articolo 31 (che però erano viziati dal fatto di essere fidanzati con Elenoire Casalegno), si era rappresentata così compiutamente la condizione dell’italiano medio di fronte alla morte non solo della politica e della televisione, ma anche di molte altre speranze.

Un moccioso quarantenne perennemente sporco di nutella, che si rifiuta di seppellire il genitore defunto al punto che lo fa imbalsamare, allo scopo di continuare a guardare tv spazzatura in sua compagnia, come se niente fosse, e come se avesse gia cominciato a puzzare ben prima del trapasso stesso. Infine, la gag della macchina da scrivere immaginaria e musicale, alla Jerry Lewis, ci commuove quasi, ricordandoci quanto sia dotato anche solo artisticamente questo comico, e a quanto sappia rinunciare per il solo piacere di infischiarsene. Auguri di molte altre puntate a Daniele Luttazzi, che è al tempo stesso il politico meno populista, e il populista meno politicizzato che ci sia dato di avere, e non è poco.

lunedì 5 novembre 2007

La mattina di Rai Uno con l'icona Luca Giurato



(in edicola il 5 novembre 2007)

Da quando non se ne contano più tanto gli errori di pronuncia o di costruzione, ma più che altro i decenni dalla prima messa in onda, Luca Giurato è diventato un’icona della cattiva televisione – come dovrebbe essere se fosse sempre così onesta, autonoma, a volte quasi costruttiva.
1) Onesto, perché non possiamo crederlo altrimenti. Dovrebbe essere come minimo il doppio più intelligente e fortunato a poker di Emilio Fede per fingere così verosimilmente di essere un’altra persona, e per anni e anni di evoluzione e auto-affiatamento;
2) Autonomo, perché come si fa a tentare di controllare le notizie che possa dare un uomo che, concretamente, non è in grado di controllare la posizione dei suoi piedi mentre è in diretta Rai?
3) Costruttivo, perché è ormai una figura da prendere a modello da tutti i giornalisti Tv semi-dilettanti che spesso vanno in onda, con tanta più sintassi e meno della metà dello stile. Primi su tutti, ad esempio, quelli dello Studio Aperto non riformato (quello ancora diretto da Mario Giordano – su quello di Mulé ancora non ci pronunciamo male).

Puntuale come un postino irpino, Luca ha fatto ormai del refuso nella comunicazione orale un espediente retorico, e uno di una tale precisione e funzionalità che costituisce – non senza le posture – una grammatica alternativa, con le sue regole da rispettare, i suoi tempi comici e non, i ritorni in ascolto di interi programmi come Striscia, che ne hanno fatto un mito e una mucca da mungere.
Lui non co-conduce: abbraccia, tocca, maneggia la sua antagonista più totale: Eleonora Daniele. Lei, che viene dal Grande Fratello, non si muove stranamente, e che nonostante questo, miracolosamente, intervista e ragiona, conversa e saluta; lui, vecchio giornalista dapprima di Paese Sera, poi della Stampa e poi solo Rai (e che Rai: direttore dei GR, vicedirettore del Tg1), che se potesse esprimersi a gesti, parlerebbe solo di belle donne e relative metafore e metonimie, per tutta la sua mezz’oretta. Prima tutto solo, poi con Eleonora e relativi ospiti, con i quali non gli riesce mai di non avere un rapporto quantomeno affettivo, se non tattile.

Il suo spazio quotidiano – Le notizie di Luca, al’interno di Uno Mattina – glielo hanno fatto ritagliare con un paio di quelle forbici dalla punta arrotondata – rese famose da Giovanni Muciaccia di Art Attack, e da una sua imitazione di Fiorello – tanto ne devono temere ormai l’incontrollabilità quasi benignesca, ma sempre benigna, e dunque mai eccessivamente chiassosa o costruita.
Gli hanno messo a disposizione il peggio esperto di Photoshop nella redazione, ma il suo giornalino-fake, con il titolo riscritto malissimo, fa comunque ridere, anche quando parla di notizie vecchie di giorni, che in televisione sono settimane. La missione di Giurato su questa terra, avanguardia involontaria del giornalismo, è diventata sempre più l’esigenza di farci sapere, semplicemente, che – neanche nel giornalismo, soprattutto in quello televisivo – non ci sono certezze. Evidentemente, per il suo settore, quello che è avvenuto già negli anni ’10 del secolo scorso per la pittura, o nei prossimi europei di calcio per la nostra nazionale, se continuiamo così – doveva avvenire a partire dalla metà degli anni ’90 con un pezzo unico come Luca, che semina il dubbio a mani aperte, e ha riconsegnato al mezzo busto il tuttotondo.

La serata magica di La7 con un Paolini d’annata

(in edicola il 3 novembre 2007)

Già da come si svolge la puntata di 8 e mezzo che precede lo spettacolo di Marco Paolini, martedì, ci si rende conto di come la serata su la7 sarà di quelle che capitano solo una volta ogni due-tre crisi di governo di seguito. Ferrara stesso è diverso dal solito: si lascia andare, sorride molto, cita passi di un romanzo, Il sergente nella neve, che deve avere amato davvero. Come se fosse di nuovo più vicino al giovane corista che pure fu, nell’opera rock della sua infanzia spirituale: Then An Alley, con musiche di Bob Dylan. Dunque niente affatto più innocente o onesto intellettualmente, di quanto sia in effetti oggi, ma almeno, per una puntata, senza alcun bisogno di dover dimostrare, per legge o per posa, di esserlo ancora.

Paolini comincia l’evento televisivo di questo autunno-inverno più istrionico, più attore e meno solo narratore del solito. I primissimi minuti sono dedicati alla sua pelata che imita lievemente quella di un Duce non solo evocato ma, pure se lievemente, impersonato. È un confine sottile che è stato valicato (di cui già in Vajont erano presenti delle tracce, ma si trattava sempre di imitare questo o quel personaggio della folla in fuga; sì senza identità, ma abbastanza pieno di sentimenti da poter essere rappresentato in una battuta tutta sua), su cui più volte si giocherà la bellezza di questo spettacolo: al di qua e al di là del teatro di narrazione, verso un monologo più classico, ma al tempo stesso innovativo. Paolini si deve essere detto: voglio rappresentare un evento che non ho vissuto in prima persona, ma di cui ci è rimasta una fonte appassionata: il romanzo autobiografico di un vero sergente in ritirata, nella steppa, con 70 uomini soli.

Cosa sarà più realistico? Mostrare l’azione nel suo svolgimento fittizio, per quanto spettacolare (e anche un monologo sa essere spettacolare e mimetico, a volerlo), recitando da me tutti i ruoli che saranno necessari? Oppure far recitare le mie opinioni, le mie idee, le mie emozioni, impersonate dai protagonisti stessi della vicenda, come in una metafora animata della critica e della comprensione di un testo – di Mario Rigoni Stern – che abbiamo fatto nostro? La risposta è che Il sergente è un film per la tv in diretta, in cui non solo tutti i personaggi, ma anche gli attori che li avrebbero potuti impersonare sono stati interpretati da una sola persona, che è il regista, l’autore, l’attore protagonista (e non) di una vicenda di fatti e di idee su quei fatti, talmente ben mescolati fra di loro che è un capolavoro. Deciso a far guerra anche alla Russia contro il parere stesso di Hitler, un Mussolini-Paolini che, non senza genio, parla con accento veneto, ci mostra una cartina della Russia retta da un sottoposto senza volto.

E la storia comincia. Il secondo personaggio è Paolini stesso, mentre si documenta sulla storia e sulla geografia del libro di Rigoni Stern. E la sua estetica è ancora più chiara. Fra il rumore del treno che prende per andare in Ucraina, gentilmente fornito dalla stessa voce che ne racconta il paesaggio, Marco ha reso a sua volta autobiografica anche la versione in teatro-tv di una storia autobiografica, scritta da un altro ma amata da lui al punto di non poter fare a meno di intromettercisi – lupus in fabula di proporzioni mannare – e di avere l’onestà di farcelo capire in ogni minuto delle due ore che gli sono concesse per farlo. Non ci sono fatti che non siano anche geneticamente modificati, fin dal loro prodursi, dall’opinione che ce ne facciamo. L’ultimo personaggio siamo noi che scriviamo questo articolo su un dramma storico che avremmo capito peggio senza la televisione.

venerdì 2 novembre 2007

Passepartout Daverio, un Lucignolo di bellezze

(in edicola il 2 novembre 2007)

Guardare Passepartout di Philippe Daverio, domenica mattina, è come fare un viaggio astrale in compagnia di un amico immaginario, che non solo pare ci rivolga davvero la parola, ma addirittura ci accompagni alle biennali d’arte. Philippe ha trovato l’unico modo in cui una persona più intelligente e sensibile della norma possa riuscire a fare della televisione utile: parlarci dell’apparentemente inutile in maniera del tutto proficua, avvincente, mai scontata. L’esatto contrario di Milena Gabanelli.
Il nostro Lucignolo di bellezze non si ferma alla semplice critica istantanea, decretata a voce e a primissimi piani. Eppure, quella resta la parte più preziosa delle sue puntate. Ogni suo ammiccare o cipiglio ci dice qualcosa dell’opera che spesso lo sovrasta fisicamente, nel suo girovagare per corridoi e sezioni, ma da lui è governata intellettualmente, con la forza d’animo che sempre vanteranno i veri conoscitori sui critici solo accademici o verbosi. I dipinti più nuovi e oscuri, li comprende talmente che i suoi commenti sono quasi bravate concettuali, con cui, invece di toccare con mano un’opera proibita, a dispetto del guardiano di un museo, la tocca con la testa, a dispetto del suo stesso autore.

E ci propone strumenti che potremmo concretamente riutilizzare. Ad esempio, si sofferma molto sulle etichette delle opere. Nei padiglioni della mostra di questo biennio i lavori sono tutti talmente recenti e, alcune di essi, coraggiosi, che Philippe ha ragione da vendere nel dare tanta importanza alle date e ai nomi sotto ciascuno di quelli di cui ha deciso di parlarci. Leggendocele, e dando tanta importanza al pezzo, al nome dell’autore, e al compratore la cui “courtesy of” ne ha permesso l’esposizione, mette in evidenza un’altra cosa che forse ci sarebbe sfuggita, anche visitando per contro nostro la biennale: non tutti i ricchi newyorkesi hanno il tempismo o anche solo la presenza di spirito di comprare un’opera che altro non è che la gigantografia dei referti autoptici di vittime del carcere di Guantanamo. Insomma, ci ricorda che, spesso, nell’arte concettuale, chi compra o chi commissiona (anche se indirettamente e a posteriori attraverso un acquisto), è un po’ artista da par suo, proprio perché quest’arte comincia dalla mente e finisce nelle menti.

Prima, e al termine, delle incursioni nella realtà del nostro amico, tutto parte dai suoi editoriali e commentari estetici in studio, che sanno essere convincenti come televendite di qualcosa che per fortuna ancora non ha prezzo, se non un canone Rai pagato per una volta volentieri: la voglia di conoscere. Sapere che un uomo così elegante possa capire tanto bene l’arte africana degli ultimi mesi, pur sapendo pronunciare con tanta perfezione ciascuna delle lingue europee che ignoriamo, e senza essere per questo affatto antipatico, è una di quelle scoperte che possono rimettere in pace col mondo, e ricordarci, se non pure dove stiamo andando, almeno dove potremmo andare, se solo avessimo l’accortezza di imparare qualcosa da un altro di quei curiosi che “deve insegnare ai curiosi”, come si cita nell’opera, alle spalle di Daverio in studio, che gli fa da manifesto poetico.