venerdì 14 marzo 2008

La Bignardi e le strane interviste

(in edicola il 13 marzo 2008)

Più gente strana intervista e più la specialità di Daria Bignardi sembra essere diventata quella di intervistare solo gente strana, o di difficile comprensibilità o comprendonio. Di questi tempi, è ormai più semplice intervistare la figlia intelligente di Berlusconi che certi cantanti fuori dagli schemi. Così, la missione di Daria, per la puntata di venerdì scorso, è stata quella di intervistare Tricarico, il cantautore timido dall’infantilismo espressivo colto. L’autore del grande successo di “Io sono Francesco” (2000), che non disegna le tematiche sociali più invise a Gigi D’Alessio, e scomode perfino ai truccatori di Anna Tatangelo, è stato per lunghi anni completamente assente da qualunque tipo di salotto televisivo. Ora, che è reduce da un mini-tour televisivo che lo ha sentito finalmente parlare - è passata alla storia del Festival di Sanremo la sua parolaccia microfonatissima rivolta a Chiambretti dopo qualche sfottò di troppo rivolto al suo carattere chiuso; lo stesso non può dirsi per la sua comparsata a Quelli che il calcio – Tricarico ha deciso di concedersi anche un’autentica intervista barbarica, su la7.

Appena siede al noto tavolo trasparente, coi monitor imboscati, Daria è già lì ad incalzarlo con le domande più difficili possibili per un timido cronico alla Margherita Buy, solo di presenza leggermente meno bella. Lui è evidentemente, al di sopra di ogni dubbio, un vero irregolare. Non è uno che ci faccia in qualunque maniera, anche subdola o molto ben paludata. Non è a tutti gli effetti in alcun modo normale, e questo non può che fare piacere al pubblico. Forse non tanto a Daria stessa, che in qualche momento davvero non sa cosa rispondere alle sue domande. Invece, il candore quasi da Stefania Rocca prima dei primi nudi al cinema, mentre Tricarico risponde alle domande sul misto di caso e necessità per cui si è presentato a Sanremo, spiazza anche la scafatissima intervistatrice, che resta qualche secondo senza umettarsi le labbra. È davvero unico, Francesco, come riesca ad essere estremamente timido e completamente sincero al tempo stesso, due cose che dopo i primi intoppi, non vanno affatto d’accordo in televisione.

Quando rifiuta di bere la birra rituale, sostenendo pubblicamente che possa essere avvelenata, e nulla altro ci vieta di pensare che probabilmente lo pensi davvero, o che lo possa essere davvero, forse Tricarico comincia un po’ a dare sui nervi per bizzarrie e anticonformismo, ma qui è tutto a Daria, chapeau davvero, rimetterlo fuori dai binari dell’assenza di qualsiasi direzione. Ed ecco il colpo di genio: insistere, insistere e insistere ancora dopo le prime proposte di fargli raccontare la sua barzelletta preferita. E, senza che lui abbia bevuto ancora un solo sorso di birra, la barzelletta arriva. Non farebbe ridere neanche Berlusconi se l’avesse raccontata lui, ma Tricarico ha parlato per più di sessanta secondi, ha un bel sorriso, ed è un grande cantautore.

Vita rubata, speriamo in bene

(in edicola il 12 marzo 2008)

Il film per la tv “Vita rubata” – che racconta la morte e le indagini sulla morte di Graziella Campagna, vittima di mafia – è appena andato in onda che forse ha già cambiato – non certo per sempre: ma speriamo almeno in qualche mesata di coscienza – il modo in cui i dirigenti Rai si devono rapportare coi film per la tv di contenuto delicato e stile sincero. Questo, visto il modo in cui di solito sceneggiatori e registi sopra le righe vengono trattati dal network pubblico: ricacciati fra pagine e costrizioni rigide almeno come le sbarre della cella degli assassini di Graziella (metafora triste delle righe di cui sopra). La fiction che Graziano Diana (autore del soggetto, all’esordio come regista) firma per buoni e cattivi pagatori del canone è invece differente. Innanzitutto, perché un personaggio fondamentale della tristissima vicenda è stato coinvolto ampiamente ed efficacemente anche nella fiction, e in due modi. Pietro, fratello carabiniere di quella vittima - diciassettenne - di una malavita secolare, è sceneggiatore quanto Graziano del film, nella vita. Ma anche protagonista della vicenda, nella fiction da lui scritta, e interpretato da un Beppe Fiorello mai così convincente, neanche con Salvo D’Acquisto o nel ruolo di se stesso ai tempi del Karaoke del fratello.

Tale è la sua naturalezza, tale la sua spontaneità, come se, nella fattispecie, non avesse fatto non diciamo l’attore, ma proprio il carabiniere. Graziella viene uccisa neanche maggiorenne a Villafranca, in provincia di Messina, perché, lavorando in una piccola lavanderia in un piccolo paese pieno di grossi latitanti, rinviene nel modo meno opportuno possibile un documento chiave, un pezzo di verità dimenticato in un abito quasi certamente falso o odiosamente fuori moda, che un capo mafioso le aveva involontariamente consegnato, dopo aver sporcato dentro e fuori metafora l’abito stesso che lo conteneva. Larissa Volpentesta, nel ruolo di Graziella, nelle belle scene di vita quotidiana in qualche modo sapiente riconstruita, anche se si tratta solo di vent’anni fa, è l’altra formidabile sorpresa nel cast artistico. E’ una di quelle belle e brave dal talento spontaneo che farà tanta strada quanti pochi saranno i corsi di recitazione seguiti. (Da segnalare, fra la commozione generale, durante la scena del ritrovamento del corpo di Graziella – quella che più commuove Beppe Fiorello nelle interviste con Pippo Baudo – l’avvento finale del Corpo Forestale dello Stato in una fiction mainstream. E’ una macchina dei forestali che trova la ragazza. Come segnalammo qualche puntata fa della nostra rubrica, era l’ultimo in assoluto nel particolarissimo rating della presenza delle forze armate in televisione, superato perfino dalla Guardia Costiera d’assalto di Gente di mare). Indimenticabile il modo in cui una fiction riesce a farci soffermare su un dato che nella vita può abbondantemente sfuggire: il lavoro in lavanderia come segno di rinnovamento, di pulizia, invano ma non senza speranza.

Doctor House, la prima strana visita

(in edicola il 9 marzo 2008)

Da quando abbiamo scoperto - grazie a un semplice consulto su Internet Movie Database - che dai libri di P.G. Wodehouse fu realizzata una serie televisiva capolavoro, non c’è “Sherlock Holmes” della BBC o “Orgoglio e pregiudizio” del ‘95 che tengano: la serie inglese che dobbiamo invidiare con più convinzione e costanza è “Jeeves and Wooster”, diretta da Ferdinand Fairfax.
Questa è una serie di tale qualità nella tempistica comica, ma soprattutto nelle ambientazioni e nei costumi, che parrebbe molto, molto più antica di quello che è in realtà. Non diciamo vittoriana, ma perlomeno non la si farebbe risalire facilmente così inizio degli anni ’90. Una delle scene più divertenti della prima stagione è anche decisamente premonitrice di quello che sarebbe stato il ruolo della vita per il grande protagonista. Per quanto riguarda, dal canto suo, Stephen Fry, stavolta comprimario, per quanto immenso, ancora niente avrebbe potuto farci premonire la sua statura futura anche di scrittore e sceneggiatore (oltre che di geek di telefonio mobile nel suo blog, seguitissimo).

Bertie Wooster è un giovin signore alcolico e londinese, che vive in simbiosi col suo valletto Jeeves (tanto acuto, sapiente, tanto rapido nell’ideazione quanto nell’esecuzione dei suoi progetti, che diede il nome a un motore di ricerca degli albori del web: “Ask Jeeves”). Uno dei suoi giorni di massimo sforzo si trova a dover fare un’ambasciata per conto della sua zia tradizionalista e verbalmente violenta Agatha, presso una camerierina che il fratello della zia, un autentico Lord inglese, si trova a desiderare ardentemente di sposare. Lo scopo della visita è quella di offrire cento sterline alla giovane perché rinunci a sposare il gentiluomo, dato il dolore che quell’unione provocherebbe nella sorella di lui. Bertie viene però accolto dalla madre della camerierina, che lo scambia per un medico e gli propone di esaminare un suo ginocchio dolorante, nonché gli propone di dare un’occhiata anche al suo didietro stagionato. E’ troppo per Wooster, che con una scusa più o meno galante delle sue, riesce a fare sapere nel modo più comico ed elegante possibile che è molto, molto lontano dall’essere un nuovo medico in servizio.

Perché tutto questo ci ha fatto morire dal ridere, più ancora che per il solo fatto di essere estremamente esilarante di per sé? Perché nient’altri che Hugh Laurie, il Doctor House in persona, interpreta il giovane Wooster, ed effettua sul ginocchio della signora la sua prima diagnosi molto creativa della carriera da attore. Stracult è dire poco. Tutto questo solo per dire che è un peccato mortale che questa serie non sia stata mai trasmessa in Italia, per quanto eccentrica sia, e che un eventuale ritardo nel proporla oggi sarebbe certo una colpa meno veniale di non proporla mai.

Mai dire GF, ma non bastava il GF?

(in edicola l'8 marzo 2008)

Mai dire Grande Fratello, su Italia Uno, prosegue la sua lotta annuale contro la nostra capacità di assistere a uno degli sfaceli della nostra coscienza di telespettatori (il Grande Fratello, anche 8) in silenzio o dormendo. Più didattica di un programma di cucina o di pennarelli colorati, Mai dire GF agisce esattamente come uno di quegli insegnamenti catechistici che, da piccoli, ci allertavano su quanto sarebbe stato meglio dotare un popolo africano di una lenza invece che di molti pesci già pescati, magari Findus – perché così poi i popoli avrebbero pescato da soli. Proponendosi non solo come una buona parodia (sebbene, chiaramente, di tipo troppo “autorizzato” per risultare mai scomoda o meno che ulteriore pubblicità), ma come una vera e propria visione ragionata, guidata dalle tre voci fuori campo degli autori, basata sulle stesse immagini che tutti possiamo vedere, ma non commentare così intelligentemente, fino al loro avvento.

La Gialappa’s ha dalla sua tutto un patrimonio in battute che vorremmo fare anche noi, per esorcizzare quel senso di colpa nei confronti della televisione di qualità di cui ci hanno reso schiavi una fidanzata bella fuori, senza troppe pretese coi film d’autore, dentro; una famiglia intera troppo stanca per guardare anche solo Vespa; una stagione intera di fiction in fin dei conti sopravvalutate e poco aderenti alle rispettive fonti letterarie. E ci fornisce gli strumenti per farne altre, per essere Gialappa’s noi stessi. Noi condividiamo con gli autori del programma lo stesso materiale video che mandano in onda Sky o Mediaset, loro condividono con noi il loro meraviglioso senso dell’umorismo, così aggiornato di stagione in stagione e così superiore linguisticamente ai discorsi del concorrenti. Come ad esempio affettare accenti settentrionali anche se siamo napoletani, nel porgere certe battute ai nostri compagni di merende (è davvero una mania non trascurabile, queste dell’umorismo lombardo Gialappa’s applicato a tutti i campi del sapere video, che ha introdotto dalla Lucania al Salento espressioni come “zebedei” e “pantegana”, facendo ogni volta ridere come se fosse la prima volta).

Insomma, il rischio non è tanto che quest’anno il concorrente-cummenda Roberto possa fare, in diretta, a sua volta una controparodia della Gialappa’s stessa, in quanto milanese e spiritoso, ma che i nostri vicini di divano possano cominciare ad esibirsi da par loro come ulteriore sottofondo alle vicende della casa. L’unico campo in cui non possiamo nulla contro il talento dei testi dei tre è invece quello delle imitazioni. Quella del concorrente brasiliano che ha una moglie intera dentro la casa, ma la tratta come un’altra partecipante al gioco, di cui temere gli occhi dolci ed evitare le gelosia, è una delle migliori di questa tornata aurorale. Probabilmente non mancava un programma del genere, ma perché lasciarci col dubbio?

Californication da oggi su Jimmy

L’interessantissima Showtime, già produttrice di Dexter (lo show con l’ematologo violento e killer gentiluomo) sbarca in Italia con Californication, la serie umoristico-letteraria che ha affrancato David Duchovny dal ruolo di Fox Mulder in X-Files – cosa che a lui non era riuscito di fare neanche con una trafila di filmetti orrendi, e certo non la comparsata in Sex & The City, del resto. Questa volta l’attore, laureato a Princeton e a Yale, interpreta in ruolo di uno scrittore piuttosto in crisi di ispirazione, ma fortunatissimo in amore. Troppi romanzi non gli vanno come dovrebbero, di uno si decide di farne un film e decide di trasferirsi da New York in California, intraprendendo una nuova carriera parallela di sciupafemmine avvinazzato e spesso fumato. Da qui il titolo della serie, tratto a sua volta dall’album celeberrimo e omonimo dei Red Hot Chili Peppers, verosimile portmanteau fra lo stato della West Coast e la parola inglese che identifica l’atto preferito di un numero cospicuo delle sue abitanti, a quanto pare. A Los Angeles Hank Moody (il cognome letteralmente significa “umorale”) comincia a tenere un blog per una rivista alla moda (indimenticabile il momento in cui gli si propone il lavoro, atteggiando la bocca a conato di vomito mentre si pronuncia la parola “blog”) e a cercare di risolvere il suo rapporto altamente conflittuale con la moglie e la figlia andando di fiore in fiore, probabilmente con l’idea di rendersi conto a un certo punto della faccenda che non c’è niente di meglio del proprio alveare, ma con una certa maggiore cognizione di causa.
(in edicola il 6 marzo 2008)


Curatissima la sigla di apertura, un elemento che sta diventando sempre più un terreno di scontro fra i potenziali degli scrittori di serie americane, che agisce come manifesto poetico dei temi presenti e futuri. Il nostro uomo si muove per i quartieri di Los Inglese in macchina o a piedi, e continuamente il montaggio stacca in favore di vari oggetti volanti, più o meno identificati: un gabbiano, un aereo, l’immaginazione a corto di idee del nostro protagonista. Ma una ruota da Luna Park lo restituisce all’ambito relativismo con cui, non se lo dimentica, risolverà i problemi di moglie. Delicatissimo il finale della sigla in cui ai vari velivoli si aggiungono i fogli di un manoscritto mescolati dal vento, e sparsi per una via di quelle in cui Hank sparge tanta parte del suo talento. Lo stile irriverente e ironicamente scollacciato del prodotto, permettono a chi ne sta curando il lancio italiano di giocare coi nuovi strumenti del marketing in modo molto originale. Ad esempio, è notizia di questi giorni l’avvio della campagna pubblicitaria (del tipo “guerrilla”) nelle linee metropolitane di Roma e di Milano a base di reggiseni rosa fintamente abbandonati sui sedili, recanti l’etichetta “Californication”. Da noi la prima stagione della serie parte sul canale Jimmy del bouquet Sky da oggi, proprio mentre fervono i preparativi per le riprese della seconda stagione, prevista negli Stati Uniti per l’autunno.

mercoledì 5 marzo 2008

Nel tg2 nicchia over 60

(in edicola il 5 marzo 2008)

Senza l’apporto fondamentale del Tg2 Costume e società, come faremmo a sapere che il mondo sta cambiando, in generale; o che la Chiesa cattolica tiene all’ecocompatibilità, nel particolare? O che Sandra e Raimondo sono parte tanto del nostro costume quanto della nostra società? Martedì, effettivamente, è proprio la coppia decana della televisione autobiografica a essere la protagonista assoluta della puntata della rubrica del Tg2 decana della carenza di ispirazione per contenuti. Si riflette, dal salotto di casa loro, su come parte di quello che vediamo oggi in televisione sia dovuto alla mancata osservanza dei loro insegnamenti. Non è una facezia o una boutade, per l’autore del servizio, e la dimostrazione della sua tesi avviene con alcuni filmati di repertorio sapientemente scelti, tratti perlopiù da verità con Sandra che gioca con un palloncino o Raimondo che parla romanaccio. Cose che se avvenissero ai tempi nostri, in un sol colpo, abbatterebbero con sicurezza da taglialegna le fondamenta degli odiati reality, del faticoso infotaiment, quanto del tremendo cultural gossip, che è trasversale alle due categorie sopracitate. Almeno secondo il nostro giovane ed elegante intervistatore. Che sa sfottere magistralmente Raimondo, chiedendogli se fa sport, con la piccola ma comunque spassosa gaffe di non saperlo quasi bloccato per via di un incidente alle costole che quasi gli impedisce di respirare.

Non che i coniugi Vianello non meritino spazio in televisione, onorificenze o commemorazioni, come la bella e discreta apparizione sul palco di Sanremo non ha attestato. Sono stati un vero e proprio corso di telegenia morale in un periodo in cui si avrebbe bisogno di modelli come del miele dietetico sulle fette biscottate dei baretti Rai. Il punto è che forse questo servizio monografico era troppo poco ispirato perfino per un duo che per anni ha fatto ridere – e anche relativamente a crepapelle – giovani dai 50 anni in su grazie alla sola gag dei piedi che scalciano sotto le lenzuola. Ci sono servizi infinitamente meno accattivanti, d’accordo, come quelli sul caro prezzi dei gelati ad esempio, per non dimenticare la saga dei nani da giardino preziosi che finalmente approdano sulle terrazze del centro. Ma il gusto puffo della gelateria Due Palme di via della Maddalena a Roma non può fingersi perplesso delle stesse domande che gli si rivolgano, come invece fa diligentemente l’esperto Raimondo, che riesce a rendere del resto tutta l’intervista guardabile sparlando in continuazione della moglie, che gli siede affianco. Ci troviamo davanti, sempre più, a una versione per anziani di Studio Aperto in cui venga proposto, in luogo di “ciò che altrove non farebbe mai notizia per chi non fosse un uomo fra i 18 e i 40 etero e un po’ becero” (Studio Aperto), si propone invece “ciò che altrove non farebbe mai notizia per chi non fosse ”un uomo o una donna fra i 60 e i 99 etero e non più becero“. Insomma, l’altra nicchia fondamentale della rivoluzione contenutistica della nostra informazione televisiva.

L’ultima domenica in molto particolare

(in edicola il 4 marzo 2008)

La prima Domenica In dopo la fine del Festival di Sanremo – anche se questo è stato poco visto o, peggio, qualitativamente superiore alla norma, come sostiene Baudo per questa edizione – viene dedicata, per tradizione, a quella sorta di dopo-dopofestival che un tempo era una buona occasione di spettacolo televisivo, e negli ultimi anni aveva cominciato a somigliare all’ennesima puntata dell’Italia sul Due o di Cocuzza dedicata ai postumi di un reality qualunque, e neanche troppo musicarello. Quelle puntate erano delle buone occasioni perché i cantanti si esponevano più che in un dopofestival in senso stretto, con maggiore rilassatezza (in altri tempi si lottava seriamente per vincere e l’ultima sera, dopo le ultime emozioni, il dopo-festival non c’era e non c’è). E perché davvero si lanciavano o si archiviavano gli artisti destinati o no a restare sul mercato musicale. Molti veri talenti, che fossero solo musicali o pure televisivi o, in generale, comunicativi, sono stai lanciati infatti da quella prima puntata di Domenica In cui parteciparono, e non dal loro primo Festival di Sanremo in quanto tale. Quest’anno, invece, visto tutto quanto si è potuto dire, non solo sulla stampa, ma anche sul palco stesso dell’Ariston, i toni della trasmissione domenicale che, per una volta, conduce Baudo, sono insolitamente signorili, retrò.

Come sospesi in un tempo in cui Amedeo Minchi poteva davvero esprimere un parere sul significato della sua canzone, e tutti gli altri (giornalisti, altri cantanti, perfino una blogger di Blogosfere: Alessandra Carnevali) a commentare, e il tutto con una tale intensità di contenuti e di forme, che quando arriva la pubblicità non si ha la frenesia di cambiare canale per veder il prima possibile com’è è vestita Simona Ventura, ma ci si riposa quasi la testa, e si pensa a un testo o a una melodia come non era capitato neanche sabato. Pippo sfruculia un diciassettenne che era in gara, sulle trentenni e sui sentimenti che esse possono provare per lui, con la timidezza e il garbo di una trasmissione di quando le trentenni avevano l’età del giovane Ganimede in questione. Non si riesce a stabilire con certezza assoluta a cosa sia dovuta tanta qualità.

Pare quasi di trovarsi davanti a uno di quei colpi di scena da romanzo più o meno epico in cui un cattivo della prima ora (uno, d’accordo, non proprio cattivissimo, ma comunque uno che ci teneva e eccome ai suoi piccoli privilegi, alle profferte che qualche popolo gli corrispondeva in termini di attenzione e ascolto), improvvisamente annuncia, con il proprio cambio di direzione, con la propria nuova bontà, anche la fine del romanzo. Forse Pippo sa di dover in qualche modo pagare per il crollo degli ascolti sanremesi, senza che nessuno - e non solo lui - abbia fatto qualcosa di molto innovativo, magari anche last-minute, per rinnovare la formula dello show. E forse pure, relativamente anziano com’è (anche se Bongiorno dimostra che non lo è), relativamente straricco com’è, avrà pensato in cuor suo di darsi alla novità per lo spazio di un’ultima domenica molto particolare, e finalmente “in”, che pure segue a una settimana molto particolare per la storia della sua conduzione, essendo forse la prima grande occasione in cui ha potuto fare lo spiritoso senza apparire troppo giovanilista o troppo vecchio.

Amici, la televisione che si autopeggiora

(in edicola il 1° marzo 2008)

Anche per raccontare lo stato attuale di Uomini e donne, uno dei programmi simbolo più evidente della decadenza della televisione italiana, scegliamo l’approccio, per così dire, impressionistico (come facemmo col Grande Fratello), rifiutando, per questa volta, il corteggiare questa o quella teoria – che sia dell’eterno rimando, post Marta Flavi, o del solito addormentamento pre-pomeriggio. In un collegamento esterno, un corteggiatore palestrato del tipo con pettorali molto alti (esofagei) incontra la sua bella corteggiata in una sorta di sacro speco, una grotta, di memoria sanfrascescana ma con incensini. Lui, non ricordando il numero di fratelli e sorelle di lei, non ottiene, al termine di una discussione interminabile, che un bacio su una guancia, ma recupera ampiamente consegnandole un cuscino molto piccolo e quasi certamente scomodo e una coperta di pile dell’Ikea con il suo profumo. Ci si strofina. Due corteggiatori rivali, che normalmente si abbracciano in camerino, si accusano di essere l’uno un puffo bello (o bello che non balla) e l’altro pupazzo di neve o maleducato.

Al nuovo insulto di “esternista” – riferito dal pupazzo di neve al puffo, per via della sua migliore riuscita in testa a testa con la loro amata, rispetto alla dialettica col pubblico e gli altri rivali in studio, Maria De Filippi interviene e chiede all’amata se non avrebbe preferito dai due una classica scena di gelosia. Lei risponde di sì. In tutto questo Gianni Sperti, il famoso ex-marito di Paola Barale, continua ad esserci, seduto mollemente, ogni tanto un sorriso di circostanza, ma fuori, Ormai ha quasi preso l’atteggiamento con cui uno studente di liceo né particolarmente bravo a scuola, né particolarmente dialettico o “contro”, siede ad un’assemblea d’Istituto che sì, gli offre su un piattino di plastica la possibilità di non fare lezione, ma a conti fatti in questo momento gli impedisce comunque di dormirsela della grossa o di giocare a poker elettronico. La pubblicità, coi suoi toni e ritmi innaturali, i suoi colori perfetti, paradossalmente ha il compito di restituirci alla realtà, fra una di queste scene e un’altra.

Non c’è un solo altro show italiano che sia così presente nella nostra mente quando pensiamo all’eterno dilemma se sia nata prima Maria De Filippi o la studentessa fuori sede che la guarda. Vale a dire: se la televisione peggiora tanto, è colpa della richiesta di peggioramento da parte del pubblico, o dell’offerta peggiorata per moti suoi interni e/o infernali. Noi non avremmo troppi dubbi, e anche l’anagrafe, del resto, sarebbe dalla nostra parte. Il dilemma è stato rispolverato da Pippo e Luzzato Fegiz nella conferenza stampa sanremese di mercoledì. Quando, entrambi con una grossa parte di ragione, probabilmente, ma certo non tutta, si chiesero se l’insuccesso di Sanremo sia dovuto, quest’anno, più all’innalzamento della qualità della conduzione o al cambiamento quanto mani epocale dei gusti del pubblico da casa (quello in teatro, si sa, è lo stesso da 30 anni almeno).

I dubbi di Guaccero e Osvart

(in edicola il 28 febbraio 2008)

Le altre due protagoniste di questa edizione 2008 del festival di Sanremo, dopo il fantasma della musica leggera e Toto Cutugno in carne ed ossa, sono le due vallette Bianca Guaccero (1981, bitontina, che balla, canta, parla in inglese) e Andrea Osvart (1979, ungherese, che stona, litiga e ha studiato). Si è scelto, per le prime mandate, di non farle comparire insieme, ma di dedicare una puntata a ciascuna delle due, per evitare in fondo l’effetto veline, bruna e bionda come sono anche questa volta. Come il giorno e la notte, che non si incontrano mai, anche loro due simboleggiano due aspetti fondamentali della vita, anche se in particolare del vallettismo e della co-conduzione in generale: una, l’essere bella e brava, pur non volendo altro che essere solo bella, e risparmiarsi tutti possibili i conflitti con le solo brave (spesso anche solo quarantenni); l’altra, l’essere solo bella, e fare di tutto per sembrare anche brava.

Bianca canta infinitamente meglio in playback, mentre danza, piuttosto che dal vivo al piano di Sergio Cammariere. Andrea invece stecca felice, coraggiosa, quasi impertinente nel suo modo di volerlo fare diretta da Peppe Vessicchio, eppure senza seguire con la sguardo neanche per un instante in famoso ciuffo bianco che gli fa da bacchetta. Anche alla luce delle loro rispettive performance coi tre giornalisti-vecchioni del dopofestival (che, alla seconda puntata, si rivelano ormai presenza fissa), Bianca è infinitamente più trattabile e conversativa di una Osvart che, appena può, si risente e ammutolisce, come se non sapesse che questo è il livello cui una mezza dozzina di anni di dopo-reality hanno ridotto, non diciamo la televisione italiana, ma addirittura le menti di giornalisti anziani della carta stampata.

Osvart rifiuta il salame che la Agosti le offre, non si sa se perché ha studiato e dunque conosce la possibilità di metafore sconvenienti; Guaccero invece non si pone il problema neanche per il tempo di un sorriso in più (anche se in sfavore di camera) e fa il verso di mangiare, con tanto di pane di accompagnamento, il detto insaccato. Non si capisce perché Lucilla le dica che non avrebbe potuto rifiutare in quanto pugliese, come se fosse una tipica espressione della pugliesità non rifiutare i salami offerti nei dopofestival o comunque nei dopolavoro. Successivamente, Guaccero finge molto meglio dell’altra di mangiare ed è per questo che le perdoniamo la pizzica tarantata ballata durante la trasmissione: perlopiù fingendo di essere un ragno, e muovendo per il palco a quattro zampette e la schiena inarcata (a dorso di ragno, dobbiamo supporre).

Nella seconda puntata, come si sarà forse notato, uno dei vecchioni è una donna, eppure si complimenta con ancora più fervore dei colleghi del tutto uomini con Bianca. Non avevamo bisogno di molto altro per decretare il suo trionfo sull’algida Andrea. Eppure, il modo in cui la pugliese ammette di aver fatto solo uno Zecchino d’Oro regionale, da bimba, e non nazionale come buttà lì la Agosti; le sue risposte alle domande più insidiose dei vecchioni su quanti anni abbia; e, soprattutto, la versione con fisico aggiornato della stessa canzone che davvero portò allo Zecchino (Cane e Gatto, simbolo del rapporto coi vecchioni, involontariamente), ci tolgono ogni ultimo barlume di possibile dubbio.

Dopofestival, il vero Festival

(in edicola il 27 febbraio 2008)

Questo Sanremo 2008 è stato talmente (e a ragione) trasformato in un dopofestival nel festival, grazie a Piero Chiambretti, ai suoi gruppi d’ascolto, alla stessa inverosimiglianza di una giuria giovani presieduta da Federico Moccia, che il dopofestival in sé, quello condotto da Lucilla Agosti, è divenuto il vero festival, e con un discreto successo. Dopofestival nel festival perché tutto si ripete da troppo e troppo spesso, perché non lo si debba considerare, tout-court un post-festival, nel senso da categorizzazione storico-artistica, come quando si smette di credere alla modernità o a un credo religioso. Solo un’autoironia decadente, terminale, appunto quasi da Satyricon, permette a Pippo Baudo e a Sanremo di esistere ancora, attaccati come sono alla stessa spina dei pochi spettatori anziani e non dormienti che possano ridere davanti a Lenny Kravitz che canta Donna Rosa, dacché sono abbastanza svegli da sapere quanto è famoso Kravitz, e abbastanza avanti con gli anni da conoscere l’origine di quel motivetto tormentante.
Un solo merito, doppio: Chiambretti e Baudo agiscono evidentemente l’uno come il Sancho Panza dell’altro, avendo l’accortezza, di volta in volta, di riportare a terra il sogno, la visione che l’altro sta avendo in continuazione, che sarebbe un festival di vent’anni fa per Baudo, e una puntatona di Chiambretti c’è per Piero.

Eppure, per quanto a un orario smisurato, un certo punto, il festival finisce, e Lucilla parte con la sua idea di programma musicale fatto finalmente con grandi mezzi, grande pubblico e ancora più entusiasmo dei tempi di All Music, e balza subito all’occhio che non è necessariamente più entusiasta solo per i nuovi mezzi e il nuovo pubblico, ma perché finalmente si realizza come conduttrice di nicchia anche fuori dalla nicchia. Se non bastasse il suo modo di dare il giusto nome alle persone e ai concetti (anche, ovviamente, musicali) - oltre a un certo innegabile fascino di ragazza acqua e sapone che non studia troppo, ma osserva moltissimo – le verrebbe comunque in soccorso il co-conduttore Elio delle storie tese, che è l’altro vero motivo per cui guardare la programmazione di Rai Uno, almeno questa settimana, fino a orari più che marzulliani. Vero e proprio show indipendente, e non o conferenza stampa a telecamere accese, né il meglio di, a puntata finita da dieci minuti (come del resto si è spesso usato) la formula di Lucilla, Elio e Lucia Ocone è di mini-varietà con tanto di imitatori (grandissima Lucia Ocone nel ruolo di Mina) e di propria musica e ospiti.

I tromboni di critici, non solo musicali, del resto, non possono mancare in studio, come per un riflesso condizionato, per quanto dribblati più o meno agilmente dalla stessa Andrea Osvart, che deve purtroppo rispondere ad accuse di uomini sopra i sessanta sul fatto che sia troppo visibile il fatto che, rispetto alle vallette del passato, abbia studiato. Tutto ciò, sempre unito alla competenza musicale di tutti, appena appena malcelata, per gli sfottò ai cantanti in gara con più cognizione di causa della storia dei dopofestival, renderebbe il programma imbattibile per qualunque concorrenza, se solo se ce fosse una, a quell’ora. Ma i conduttori e i comprimari sono impegnati come se fosse l’occasione della loro vita, cosa che certo non è per Elio, ma forse per la Agosti sì, con tutti i nostri auguri.

E’ nato il club Cashmere Mafia

(in edicola il 26 febbraio 2008)

Nato come quasi uno spin-off del sempre sopravvalutatissimo Sex & the City – se non altro perché le due serie hanno un creatore o due in comune, e un’intera metropoli di bar e club da esplorare: New York – Cashmere Mafia è infinitamente superiore al suo predecessore, noto per essere la serie tv in cui tutti (produttori, colleghi, pubblico) fingono che Sarah Jessica Parker sia bella o addirittura sexy. Per varietà di temi, per profondità di personaggi, ad esempio. Ma soprattutto per la cura maniacale dei dettagli delle location e delle scenografie, infinitamente variabili, assecondando o contrastando, come accade sempre nella varietà di una città così, gli stati d’animo delle quattro affiatatissime protagoniste: Mia, Zoe, Juliet, Caitlin. Più che a Sex & the City, in cui predomina convinto il modello di donna finta giovane e vera cazzeggiona, però, Cashmere Mafia somiglia a un Disperate Housewives in cui però disperati fossero i mariti, e non le mogli, tanto le quattro sono in carriera, adulte, poco materne, e irresistibili. Per di più, gli uomini lavorano anche qui.

La serie racconta, naturalmente, delle peripezie che le donne compiono per far quadrare i bilanci della vita privata e dare un tocco di umanità a quella lavorativa. Mia è interpretata da Lucy Liu: una cinese che non vuole cinesi come vorrebbe mamma, forse la più sexy e la più fragile della piccola cosca, perché più problematica e sentimentale. È editore di una serie di riviste di moda, costume e varietà che vanno per la maggiore, con un capo dei capi ebreo-inglese, si suppone, che non le lascia passare neanche un vestito eccessivo o un’acconciatura cafona. È single dopo che il promesso sposo l’ha lasciata perché lei ha vinto una gara con lui per una promozione, e vede troppi caucasici. Zoe è apparentemente la più in carriera e meglio sposata, con un architetto che piace alle mamme casalinghe della scuola dei figli, contro le quali però decide di non combattere ad armi pari, noleggiando autobus a due piani per classi intere di scuole elementari. Ma le tentazioni, proprio sul lavoro, e per entrambi, sono tante.

Juliet è la rossa di fuoco e ghiaccio, che simulerebbe orgasmi al contrario, cioè fingerebbe di non averne, col marito che la cornificia con una donna molto intelligente, e perfino della sua stessa età. Lavora come executive per una catena di alberghi di lusso e ha una figlia che è come era lei alla sua età: bellissima e scalmanata, in attesa di essere forse disciplinata dalle infinite delusioni di una cita di successo. Caitlin, grazie a una liaison lesbica, scopre che si può essere delle donne forti e intelligenti anche da etero, e lavora per un’industria di cosmetici cui preferisce, in privato, una grande naturalezza. Cashmere Mafia non è ancora non trasmesso in Italia, e sta riprendendo in questi giorni le sue trasmissioni Usa sulla Abc, dopo per che mesi il pubblico si accontentato di 7 puntate su 13 per via dell’acerrimo sciopero degli sceneggiatori. Il suo sbarco nel nostro paese non può che essere imminente, ma ancora non si sa nulla di chi se ne stia interessando più concretamente di noi. L’utente media di Internet Movie Database dichiara, imbestialita, nei primi commenti leggibili nella pagina dedicata a Cashmere Mafia, che “è come Sex & the City, però senza calore e genuinità”. Ovviamente, entrambi punti a favore delle nostre quattro mafiose Perlana: avete mai conosciuto delle vere newyorkesi, anche non strettamente somiglianti a Sarah Jessica Parker, che fossero calde o genuine?

L’innovativo The italian job

(in edicola il 23 febbraio 2008)

Domenica scorsa su La7 è andata in onda la prima puntata di The italian job, con Paolo Calabresi, un programma innovativo, coraggioso e meschino al tempo stesso. Un titolo e un concetto geniali al servizio di un bravissimo attore, per fortuna ancora poco noto al momento della realizzazione dei filmati e della candid, portate avanti con una straordinaria proprietà di linguaggio e con un grado di realismo elevatissimo. Cose che forse finiranno con questa prima edizione, non solo per la delicatezza dei temi trattati - e la probabile indelicatezza, a posteriori, delle sue vittime, ma anche per la stessa visibilità del loro protagonista che in questi giorni è aumentata, per forza di cose, a dismisura. Il titolo, naturalmente, prende le mosse da quello del film con Micheal Caine e del suo fortunato remake del 2003, omonimo: vuole rappresentare, una volta di più, una delle cose che ai nostri compatrioti riesce meglio, ossia inventare nuove realtà (lo abbiamo fatto per secoli con la pittura e l’architettura, solo per fare due esempi), e saperle sfruttare a nostro vantaggio (lo facciamo tutt’ora attraverso la politica e la televisione, sempre, solo per fare due esempi).

Il concetto è presto detto: un bravo attore, che ne sa molto della vita, oltre che della recitazione (complici anche i bravi autori che lo sostengono), fingendosi un altro (in questo caso un ricco russo con desideri di investimento su sale da gioco solo apparentemente irrealizzabili) svela magagne, imbrogli, raggiri e soprattutto corruzione nel nostro paese. Calabresi, che è stato l’ottimo Benedetto Giulente degli ultimi Vicerè cinematografici (quelli di Roberto Faenza) ha da tempo la perversione di impersonare, nella vita reale, dei personaggi dello spettacolo che, spesso, non riesce a rendere imbarazzanti in occasioni pubbliche più di quanto non sarebbero del resto in grado di fare essi stessi, nei loro panni. Lo fece con lo staff del Milan quando, travestito da Nicholas Cage, ottenne ben otto biglietti per una partita del Milan, e conversò amabilmente con Adriano Galliani in tribuna d’onore, riverito come una star, con tanto di amici d’infanzia nel ruolo di sue guardie del corpo.

Il Sergei di Calabresi - il nome del suo indimenticabile russo baffuto e dalla battuta pronta - è spesso divertente come un Borat, non privo dei suoi eccessi e dei suoi tic, di cui lo dota l’interprete, con cui il pubblico, di scena in scena (che sono numerose, in diverse location e tempi) stabilisce quasi un rapporto affettivo, ed è dura alla fine vederlo “morire” in nome dello smascheramento necessario, quando però, del resto, è già avvenuto quello, ben più triste, delle sue vittime prescelte. The Italian Job è come uno Scherzi a parte in cui si scherzi sul serio, con le stesse persone che, però, scherzano un po’ troppo con le loro posizioni e con il resto dei cittadini. È chiaramente crudele, estremo, a tratti vigliacco, ma mai come lo sono i personaggi che ha preso e prenderà di mira, ancora, per tre puntate. Domenica alle ore 21 e 30 la prossima.

lunedì 25 febbraio 2008

Zodiaco, oltre il pregiudizio

(in edicola il 22 febbraio 2008)

Zodiaco, il film per la tv spiegato ovunque da Antonio Marano come la risposta italiana e torinocentrica a Csi ed Ncis, si è concluso mercoledì, lasciandoci ancora una volta sorpresi per la qualità degli interpreti (anche se non della sceneggiatura, un po’ troppo pedante e didascalica per un soggetto esoterico, para-psicologico come questo) e per come, almeno in questo caso, sia stato facile superare, nella visione, i pregiudizi negativi che spesso generano dichiarazioni di direttori di rete come quelle di cui sopra. Per tacere poi delle conferenze stampa in sale con arazzi. Torino è dunque sempre più la piccola capitale morale del cinema e della fiction, fotogenica ma misteriosa il giusto, come i porticati, come le colline intorno, come la Fiat, alle volte.

Zodiaco racconta di come un serial killer colto - d’altri tempi - passi il tempo ad uccidere secondo un ordine astrologico. In particolare, insegue Ester (Antonia Liskova, la pianista-terrorista de La Meglio Gioventù), figlia naturale mai riconosciuta né conosciuta dal capofamiglia di una “dinasty” di banchieri, che verrà eliminata a poco a poco, fino ad arrivare a lei. Riguardo la produzione, bisogna mettere bene in chiaro che davvero, questa volta, si è rasentato un certo coraggio, nel mandare avanti questo tipo di progetto, retrò, complesso, forse non per tutti, qualora sceneggiato rendendo giustizia al soggetto, come si diceva. Perché il lavoro francese di cui la Rai e la Casanova Entertainment di Luca Barbareschi avevano comprato i diritti per la televisione italiana era pronto per il doppiaggio. Invece, si è tenuto al remake, ambientando il tutto in Piemonte e deamericanizzando il più possibile dei personaggi fin troppo macchiettistici e stereotipati, come soprattutto il super-poliziotto-medio, che da noi è reso da Massimo Poggio, e molto bene.

Forse, proprio per questo, una dirigenza del settore Fiction già potenzialmente sconvolta per la qualità, sulla carta, del prodotto, deve aver cercato irreparabilmente di limitare slanci dialogistici che l’avrebbero resa orfana di pubblico o di nuovi incarichi. E così, purtroppo, inquadrature che abbiamo visto raramente su Rai Due incontrano, ahimé, scambi di battute che invece ascoltiamo ogni giorno, pur resi impeccabilmente, ma mai sovrarecitate, come si dice, e neppure da Vanni Corbellini, qui nel ruolo dell’erede della Dinasty detto Pierre. Per via della camera estremamente mobile, spesso a mano, e anche in momenti istituzionali e codificati per la nostra fiction come nella bella scena della lettura del testamento del capoclan, ci sono poche scene che ci pare di aver già rivisto o anche solo visto, e qui il merito è del regista Eros Puglielli.

Notevoli pure il clima anni ’70 - e le citazioni del cinema di quel tempo - che si respirano ovunque, dalle colluttazioni appositamente approssimative (con annesso sangue raffazzonato), ai bambini che girano in bici, nei parchi, di notte. Insomma, non c’è un solo momento, neanche quando ci troviamo negli interni giorno delle villone di famiglia Santandrea, in cui ci pare essere in una puntata speciale di Cento Vetrine. E, beninteso, c’erano apparentemente pochi motivi per cui una circostanza del genere non dovesse capitare. Per il resto, quando va molto bene, ci sembra di essere in un Dario Argento dimenticato e recitato bene.

giovedì 21 febbraio 2008

La concorrenza sostenibile dell'Italia sul 2

(in edicola il 21 febbraio 2008)

Più il tempo passa e più la formula dell’Italia sul Due si attesta e si stabilizza come un dei pochi modi sostenibili di fare concorrenza con una mano sulla coscienza - e l’altra didietro - al colossale successo di Uomini e donne su Canale 5. Il talk, pur molto tristemente orfano dei cambi d’abito di Monica Leofreddi, e del modo in cui erotizzavano in parte la conduzione di Milo Infante, con l’avvento di Roberta Lanfranchi e della sua piccola dote di ospiti che non sarebbero mai andati dalla Leofreddi – al netto di quelli che purtroppo sarebbero andati solo per la Leofreddi – resta un caposaldo del pomeriggio televisivo in due ordini di realtà.
Il primo, l’antipastone, il sempre notevolissimo sceneggiato (mini-scene da qualche minuto, commentate dagli ospiti) su suocere che rompono o cognate che stanno dalla parte del marito. Che ha la missione, sempre più determinata, seppure tacita, di dimostrare semplicemente, con il minimo sforzo, come i reality siano destinati a finire il giorno in cui si riconoscerà un’altra volta, pubblicamente e ciclicamente, che è molto più difficile e utile rappresentare una buona finzione di una pessima realtà, almeno finché si parla di opere dell’ingegno.

Deve essere una complicatissima perversione che ha fatto scegliere agli autori o chi per loro la formula vincente di proporre queste scene recitate con molta teatralità, vocioni da doppiatori vecchia scuola su temi apparentemente molto banali e quotidiani (“lo sai che ti ho promesso il polpettone” pronunciati come “domani è un altro giorno”), salvo poi farne oggetto di discussione per Franco Oppini o Cristina Quaranta come se fossero realmente accadute, come se fossero appunto parte di un reality di cui si facesse la parodia dei lunghi commentari che spesso li accompagnano. Solo, terminata la prima parte, in genere si passa a una grossa contraddizione, nel secondo ordine di realtà. Un personaggio o più reduce da reality anche di diversi anni fa, targati Rai (addirittura spesso si risale fino a Il Ristorante) viene sottoposto a numerose domande su come la sua vita sia cambiata dopo la partecipazione a quel programma, che gli ha ridato fama e mancato successo.

Alle volte, però, e un reality della Rai partecipa un concorrente con un po’ di spessore e storia in più sulle spalle, come il caso, mercoledì, di Riccardo Fogli. Che riesce a raccontarsi in modo semplice, a efficace, fino ad avere parole di affetto in video per l’insegnante di matematica della scuola serale che sta frequentando. È molto intenso il ricordo, viceversa, che di Riccardo Fogli presenta un “ricco e povero”, come del resto dichiara espressamente il suo sottopancia, senza fornire altro nome. Storpiando a bella posta il titolo dello show in cui divisero una stanza e Loredana Bertè in “Beauty Farm”. L’ex bello dei Pooh possiede anche un suo folto numero di groupie maschi adoranti, in studio, che è davvero il colpo di grazia su ogni gruppo di corteggiatrici sull’altro canale, dalla De Filippi. Fogli è un tronista “nature, mai rifatto”, come sostiene con occhio languido Ivan Cattaneo, mentre lo spoglia, lo riveste, con gli occhi disegnati dalla vera ammirazione per un ospite insolitamente educato e generoso.

Una fiction da esportazione: Caravaggio

(in edicola il 21 febbraio 2008)

Finalmente, con quella su Caravaggio, le fiction Rai possono vincere, di lunedì, non solo contro il Grande Fratello di Canale 5, ma anche contro il nostro pregiudizio, ben rifocillato e rinvigorito dagli ultimi saggi del loro genere, che i nostri pregiudizi su di esse siano fondati. Alessio Boni è in parte come non lo era dai tempi della Meglio Gioventù, soprattutto dopo la parte in cui si toglie la vita. Quei tempi ci avevano per un attimo fatto dimenticare che, tutto sommato, non è che stessimo parlando di un pluripremiato oltreoceanino che non rinnegava le sue origini bergamasche, ma di un attore ex-Incantesimo, per quanto di buone letture e addetto ai lavori di surriscaldamento delle signore da casa. Eppure, con questa prova, Alessio davvero si inserisce nel meglio degli interpreti di sceneggiati moderni italiani, con una certa grazie e un chiaro sforzo di consultazione di fonti dalla produzione del maestro (del resto, bergamasco come lui) e soprattutto dalla tanta e controversa letteratura artistica su Merisi.

Boni sa guardarsi le ferite, quasi gioire di quanto siano terrene, al termine di un lungo viaggio in barca; e poi farci toccare con mano una Santa Martire, mentre la dipinge, e lei tende al cielo con la stessa intensità con cui il pittore, una scena prima, tendeva alla malaria o almeno a una notevole febbre. E questo significa aver colto almeno una grossa parte del senso dell’esistenzialismo ante-litteram nella produzione di quel maestro, così ispirato dalla sua realtà da riuscire a rappresentare un’altra, e invisibile, rendendola però come tangibile anche a noi, per via di una serie di miracoli che ripeteva in un certo numero all’anno, che si chiamano tele, pale, e pochissimi affreschi di dubbia attribuzione ma di immenso fascino. Nella fiction diretta da Angelo Longoni (che non si è avvalso, come capitò al film del 1948, addirittura della co-regia di Roberto Longhi, il grande critico d’arte, ma che comunque dimostra di avere grande gusto e grandi collaboratori alla sceneggiatura) ci sono scene che avremmo voluto vedere con tutto il cuore.

Sono quelle in cui Caravaggio è stordito da uno dei viaggi rocamboleschi vicini alla sua fine, e dunque nel periodo più tragico, colmo di sensi di colpa, e di quegli autobiografismi macabri che renderanno capolavori di un nuovo corso gli ultimi dipinti, dopo le pur coltissime nature morte, apparentemente solo perfette, ma anche esse gravide di simbolismi (come ha mostrato, fra i primi, Maurizio Calvesi, fra gli storici illuminanti su questi temi). Ma nonostante questo, come accade nella fiction, ad esempio, all’approdo a Siracusa, in fuga per salvarsi la vita, il maestro non riesce a non avvedersi della bellezza di un tavolo di giocatori, e di quello che avrebbero rappresentato per lui dieci anni addietro, al colmo dell’ispirazione per la parte “bassa” del suo lungo bilancio fra terra e cielo, spunto e ispirazione, come tutti i grandi del suo tempo e non solo nel suo campo d’azione. E di scene così ce ne sono diverse nel corso delle due puntate di domenica e lunedì. E il fatto che ne siano state concepite e realizzate anche alcune di tipo “invertito”, cioè prefigurazione del dramma psicologico terminale, anche alla corte del cardinal del Monte o dei Giustiniani, è il merito più grande di un’ottima fiction da esportazione.

martedì 19 febbraio 2008

Isoardi, la post-velina di successo

(in edicola il 19 febbraio 2008)

Elisa Isoardi. Il vero motivo italiano per non uscire del tutto di sabato pomeriggio ha un nome e un cognome che non ti sanno subito di televisione, ma di qualcosa di più elevato: da violinista, da grande ricamatrice o intagliatrice, quantomeno da poetessa dilettante che non si aspetta di pubblicare troppo, ma di decantarsi nel privato. Ha dei modi di essere, di volta in volta, la spalla di Galeazzi, l’intervistatrice bon ton, la mattacchiona sexy, alla sua età, che la collocano in sola una stagione alle vette della conduzione femminile sui nostri palinsesti, dopo una gavetta del resto sopra le righe, per conto del superiore Guido Bartolozzetti, presso Italia che vai. Non c’è bella conduttrice di Uno Mattina Estate, pure epurata per eccesso di qualità nella conversazione, che possa reggere il passo di Elisa. Forse, per trovare una venticinquenne tanto mens sana in corpore sano dobbiamo risalire ai momenti in cui Caterina Balivo rinnega meno la sua napoletanità, ma probabilmente sarebbe una ricerca vana.

Elisa è al tempo stesso la più telegiornalistica delle strappone (come amano definire le donne di grande fascino le columnist dei femminili alla moda italiani, e quelle di Amica, da non confondere mai con l’oggetto di questo tipo di riflessioni) e la più vivace e multiforme delle intrattenitrici. Parla di Afghanistan e di campionato con le stesse modulabilissime voci e posizioni della riga di lato: e dunque sempre differenti ma coerenti con un’idea del mondo che vorremmo abbracciare anche noi. Non è uno sfottò: è un grande merito, almeno ai nostri occhi, saper parlare anche con una riga. Si può lavorare con impegno e classe anche quando capita il piccolo miracolo di farlo in televisione, e speriamo per molti altri anni. Si può non solo essere belle e intelligenti, come sospettiamo non possano, tutto sommato, non essere la maggiore parte delle post-veline che restano a galla negli anni. E con post-veline intendiamo tutte le femmine da tv che hanno già archiviato la relativa fase, unitamente a quelle che non lo sarebbero mai state, veline.

Ma il bello, e grazie a Isoardi lo sappiamo meglio, è che ci possono essere anche delle post-veline meno furbe o anche solo meno ingenerose, che riescono ancora a dare a una telecamera qualcosa che non si può né contrattualizzare né tantomeno chiedere, qualcosa di prezioso e al tempo stesso impagabile: una piccola parte di se stesse. Non rifarti mai, Elisa, e intervista sempre Franco Di Mare con la stessa espressione poco ammirata per l’ennesimo brutto che piace, ma che a te no; e che magari sa anche parlare, ma tu sai parlare ancora meglio, come hai fatto questo sabato. Non essere vittima di quel sistema. Non intervistare troppi attoroni hollywoodiani, però. Questo non perché tu non ne saresti in grado, ma perché innanzitutto sapere che magari hai anche un’ottima pronuncia dell’inglese sarebbe troppo, coi tempi che corrono. E qualcuno potrebbe portarti via da Rai Uno, o da noialtri. Se non ti può avere presto Sanremo o un tuo programma di infotainment del pomeriggio, è meglio che non ti abbia nessuno.

lunedì 18 febbraio 2008

Friedman insuperabile ad Artù

(in edicola il 16 febbraio 2008)

L’ospitata di Alain Friedman da Artù, giovedì sera, è ancora più folgorante di quella di Casini da Santoro. Eppure Casini ha parlato per un quarto d’ora di idiozie sugli omosessuali pronunciate da suoi compagni di partito, mentre Maurizio Belpietro rideva, soprattutto all’espressione “arrotarli”. Non che abbiamo niente di particolare in favore degli omosessuali, soprattutto quando cercare di adottare, o di adottarci. Però Casini ha fatto senz’altro un colpaccio con quel dialogo, cattolicesimo illuminato quanto basta e via di parlantina con la “zeta”. Ma tant’è. Non tutto il bene viene per giovare, evidentemente, di pari passo col male (come lo stesso sulfureo Belpietro, del resto, che riesce comunque sempre più amabile, mano a mano che invecchia, molto bene del resto. Questa parentesi è stata aperta per farlo sogghignare per tracce di froceria, comunque). Fatto sta che Friedman da Gene Gnocchi è stato insuperabile.

Non contento di aver rivoluzionato per sempre il nostro concetto di divulgatore economico in televisione, se ne avevamo già uno, Alain è anche l’uomo dall’accento straniero meglio affettato che conosciamo, meglio anche di Ela Weber ed Heather Parisi messe insieme a dialogare in cinese mandarino a una convention poco coinvolgente. La puntata di Artù è dedicata all’inutilità delle banche e delle pensioni (in generale, dunque, all’economia perditempo). E Alain non poteva mancare davvero. Forte del video introduttivo, magistrale, che rappresenta due pensionati che rapinano in quattro modi diversamente ingegnosi la stessa banca, si collega da Londra, e niente è come prima.

Sornione, straniero eppure furbissimo, l’economista professionista consiglia come soluzione al problema delle rapine invertite (quelle che le banche fanno a noi) un uovo di Colombo, una soluzione dietro l’angolo, e poco economisti noi a non pensarci: fare più “shopping” fra le banche. Perfino la sosia di Beatrice Borromeno, neanche tanto nascosta, fra il pubblico, riesce a ridere di quella che non è, infatti, una battuta. “Dobbiamo imparare a spostare il business da una banca all’altra. Bisogna saper scegliere fra le banche, quando non ti danno soddisfazione”. Ha una risposta davvero per tutto. Tranne che alla domanda sulla carenza di belle donne agli sportelli delle banche, non sapendo cosa significhi “la gnocca”. Inglese anche se americano, risponderà non troppi secondi dopo: “Forse sono tutte andate a lavorare per Alitalia”. E’ sempre interessante come alcuni programmi di satira, debbano essere spesso in dubbio se far imitare un personaggio come Friedman da attori, oppure farlo interpretare da se stesso, risparmiando sui costi di un Crozza, di un Max Tortora, e guadagnando spesso in comicità. Friedman è davvero l’emblema dell’ospite non incisivo, non rilevante, eppure sempre al suo posto, dove c’è bisogno di qualcuno che, pure nel mezzo di una tragedia come quella del customer care delle banche italiane, o anche solo quella della loro esistenza, riesca a farti pensare che ci possono essere ben altri problemi a farla da padrone, anche se sbarchi il lunario, e perfino nella capitale britannica.

Rai Due, il cartoon assicurato

(in edicola il 15 febbraio 2008)

Il mattino di Rai Due, fino alle 10, è dedicato da molti anni - come quello di Italia 1, ad esempio - ai cartoni animati. Ora, ci siamo sempre chiesti come mai fino alle 10, visto che i bambini in età da cartone non violento o, in generale, i bambini di buon livello come sono quelli che guardano i cartoni di buon livello, alle 8 sono a scuola. La soluzione, che ci è venuta in mente ieri, mentre guardavamo Kim Possible (uno dei migliori senza dubbio), prevede che in realtà si tratti di una sorta di sistema assicurativo, un po’ perverso ma efficace. La noia o lo sgomento per molti grandi che non riescono o comprendere il fascino di quei cartoni, o a tornare bambini - o a uscire in tempo per lavorare, o proprio non riescono a lavorare - nel vedere quei cartoni, è il premio assicurativo che il resto dei clienti paga perché i veri bambini che marinano la scuola in casa, o sono realmente malati, possano tranquillamente vedere molti cartoni a un orario curricolare. Deve essere per questo motivo che i bambini che marinano la scuola in casa, poi, sono così tranquilli, durante il soggiorno sul divano, e non necessariamente per i primi sensi di colpa di una vita da gesuitici mentitori.

Oltre a Kim Possibile, l’altro grande capisaldo fra queste produzioni dedicate ai piccoli, è Scuola di Vampiri. Kim Possible (produzione Disney, vincitore di Emmy) racconta le avventure di una giovane paladina delle giustizia che, con la stessa grazia, combatte tanto i professori in classe quanto il crimine più o meno organizzato a livello internazionale, e non è detto che il primo dei due tipi di missione le riesca più facile dell’altro. Il tutto con una carica di parodismo nei confronti del classico genere cinematografico spionistico che spesso supera in sottigliezza casi analoghi tratti dal mondo degli adulti, o dei bambini non anagrafici che si prendono troppo sul serio. Scuola di Vampiri, d’altro canto, è una produzione italiana, dalla bella sigla di testa (“il sole porta solo guai”) e dai dialoghi che certamente omaggiano, con l’umiltà di chi sta imparando bene, la scuola di magia di Hogwarts inventata dalla Rowling per Harry Potter. Rievocata non solo nell’ambientazione, dunque, anche se sottoponendola a un gioco dei contrari, per cui qui sono gli apparentemente cattivi che si formano.

Quello che un po’ ci delude, fra questa programmazione, è il cartoon digitale “I miei amici Tigro e Pooh”, sebbene siamo grandi estimatori di Winnie The Pooh e dei suoi nascosti lati semiologicamente intriganti (il primo pupazzo di pezza già oggetto di meta-merchandising anche nella fiction in cui compare per la prima volta: prodotto-giocattolo già in partenza, insomma). Non solo è rivolto a un target decisamente più giovane dei pur giovanissimi cui è rivolto l’originale Pooh, ma anche a dei giovanissimi poco attenti, auguriamo agli autori (e ai bravi doppiatori italiani), per la varie incongruenze e le numerose mancate occasioni di comicità che costellano il corso delle puntate. E’ un Winnie decisamente sotto tono, insomma. I bambini sanno essere davvero i critici più spietati.

venerdì 15 febbraio 2008

Troppo relax per Markette

(in edicola il 14 febbraio 2008)

Markette, forse, si sta rilassando troppo. E non che questa stagione abbia particolari allori su cui farlo. Martedì si avvia stranamente lentissimo, con un’intervista al paparazzo Massimo Sestini svogliata e priva di qualsiasi conseguenza comica o anche solo vagamente chiambrettiana. Dieci minuti di Chiambretti Speciale (la solita anteprima furba alla Antonio Ricci che spezza in due il programma, ai fini del miglior rilevamento Auditel possibile) dedicati a come sia spericolato questo fotografo, che riprese il parto di Brigitte Nielsen, e che è ormai talmente famoso che viene paparazzato a sua volta, e deve nascondersi e camuffarsi come una star. Quando Sestini comincia ad aver voglia di definire il confine fra diritto di cronaca e privacy - e con che faccia, seriosissimo, quasi inalberato - ci rendiamo conto che qualcosa non è andato nel consueto svolgimento delle funzioni dei collaboratori di Chiambretti, come se fosse una puntata che vada a un solo gemello riminese o con qualche ballerina di troppo, che non sfigura ma appesantisce.

Ha dei pantaloni rossi, con cui si sarebbe potuto mimetizzare solo a Ostia la notte estiva fino a un anno fa, e porta molto rancore a tutti quanti quelli che non gli dicano che è molto più di un paparazzo. Sempre molto seriamente. Ci vuole Jo Champa in persona che annunci una sua rubrica di markette internazionali, prossimamente su La7, per ridare animo a pubblico e Chiambretti, oltre a restituirci entrambi i gemelli in forma smagliante, cioè un poco ulteriormente ingrassati e molto di buon umore per questo.
Un giovane nel parterre ha tanti anelli alle dita delle mani quanto anni di carriera come cromatologo free-lance: troppi per non affascinare la nonnina che gli siede accanto, e per non meritarsi un saluto ad personam da Chiambretti che annuncia il primo vero ospite: Aldo Nove.

Le stagiste lavorano come sempre al loro compito: leggere per finta, davanti al pubblico, i libri che noi non avremmo il coraggio neanche di scroccare in una Feltrinelli. Sono un simbolo riuscitissimo dell’antivelina: non la donna come metafora dell’ispirazione terrena di molte notizie, e di interi modi di fare notizia (testate giornalistiche comprese), ma come risultato dell’informazione, effetto della culturalità, quando ricevute abbastanza superficialmente, se di cattiva qualità, da non modificare il buon gusto e i bei capelli. Riescono sempre ad avere una buona parola per qualunque scrittore – anche Moccia, se solo Chiambretti volesse - e, sorridendo graziosamente, ne incoraggiano la lettura in cambio di quei sapienti tocchi di obbiettivo che ce le rende così desiderabili.

Con Aldo Nove non avrebbero questo compito, così grato. Uno dei pochi scrittori relativamente alla moda che è meno simpatico di persona che nei libri che scrive, Aldo non si toglie il cappotto neanche in studio, con tutto il rispetto, e parla con una voce da candidato doppiatore di Woody Allen in italiano in un post Oreste Lionello che non vorremmo davvero mai immaginare.
Eppure Costantino-Maga Maghella – chiaramente ubriaco dell’Heineken che non si riserva di mettere da parte - ha una carta da tarocco prontissima per lui e il futuro del suo ultimo libro, appena viene il suo turno di esporre: l’arma chimica (spopolerà, sottotitola). Costantino ingiustamente buono da ubricaco non si può vedere. Nove, del resto, non è per niente sollevato. Sipario.

giovedì 14 febbraio 2008

La chiesa del cardinal Vespa

(in edicola il 13 febbraio 2008)

Se c’è stata una puntata di Vespa, fra le ultime, che non ci si sarebbe potuti perdere per niente al mondo (e nemmeno per la bella puntata de La storia siamo noi dedicata a Fiorello, su Rai Due nel frattempo), questa era lunedì, dedicata alla Madonna di Lourdes e al misticismo di Alessandra Borghese. Naturalmente, in osservanza del tema, un parterre di ospiti esponenti del mondo dei miracolati non poteva mancare, come del resto avviene ogni sera infrasettimanale. Non mancano medici con molte frontiere (a sostenere l’impossibilità che eventi miracolosi possano pregiudicare l’andamento di una cura in clinica), la suddetta vaticanista bella, il nostro amatissimo Massimo Giletti (che non delude neanche questa volta le nostre attese). Il salotto di Vespa, all’occorrenza, riesce a farsi da modellino in scala del nostro vituperato Parlamento (o di luoghi di delitti irrisolti), a modellino della Chiesa Cattolica. Bruno regge il modello quasi fisicamente, come accade a tanti santi della tradizione iconografica che, per secoli, sono stati rappresentati proprio accanto a una Madonna con un piccolo edificio religioso in mano, che era un ricordo della basilica o del monastero che avevano personalmente fondato.

La televisione, fatta così, è sempre più Chiesa, nel senso propriamente barocco, sebbene spesso, a parità di illusioni, con molto meno gusto: un strumento per convogliare sguardi ed emozioni verso una verità che attende al centro di tutto. Al termine del percorso che un fedele compie quando entra nella navata, e la attraversa fra le pitture; e uno spettatore, ugualmente, quando accende il televisore, e lo guarda fisso, fra le iatture. Questa volta, la verità non è soltanto credere di far credere che i miracoli esistano, come ognuno di noi ha tutto il diritto di fare, anche in televisione, perché in fondo i miracoli potrebbero avvenire davvero, se tutto questo può davvero succedere nel febbraio 2008. Anzi, se non lo credessimo almeno in televisione saremmo dei senza cuore, come si dice di quelli che non riescono ad essere almeno socialisti a vent’anni. Il punto è mostrarsi ammirati di una donna come le Borghese, credere al suo fervore mistico non come alla genialata comunicativa di una falsa magra e fintissima tonta, ma a una verità da settimanale “Gente” in seconda serata, quando i lettori di Gente o Oggi o sono a nanna, oppure hanno almeno qualche altra freccia al loro arco di fruitori di media, e non possono stare con le mani in mano.

L’unico che resiste all’effetto Marcellino pane e vino è proprio Giletti. Scettico come un San Tommaso, invece di mettere il dito nelle evidenti piaghe di tanti discorsi che fanno acqua da tutte le parti, cede alla tentazione, di tanto in tanto, di accavallare le gambe e ridersela sotto i ciuffetti, mentre si propongono degli spezzoni della Bernadette del 1943 e nessun ospite sano di mente può fare a meno di notare la somiglianza straordinaria della sua interprete con la stessa Alessandra Borghese. Vespa non era mai stato, recentemente, così tanto corrispondente all’imitazione che di lui ci ha donato Tullio Solenghi, quella cardinalizia: unico momento di ritorno alla qualità di un attore altrimenti completamente decaduto, e ce ne dispiace.

mercoledì 13 febbraio 2008

Amici, rimandare all’infinito

(in edicola il 12 febbraio 2008)

Fra gli show capostipiti e campioni della tendenza che amiamo definire “Ciccio” (dal nipote di Nonna Papera che amava rimandare tutto), Amici di Maria De Filippi, e in genere tutto ciò che conduce Maria De Filippi, non può che ritagliarsi un posto d’onore. Se ci fate caso, i programmi vincenti di oggi, in televisione, sono quelli che propongono una formula di show affermata in epoche precedenti (a volte anche vite precedenti) salvo rimandare all’infinito la sua concretizzazione, la sua attuazione. Marta Flavi proponeva “Agenzia matrimoniale”, consegnando, nel passare di una sola puntata, una donna a un uomo in cerca? Maria De Filippi, in Uomini e Donne, allunga la fase del corteggiamento - i preludi dei prodromi dei preliminari - a due, tre mesi di trattative, che spesso si concludono con una delle due parti che rinuncia all’altra e comincia a farsi corteggiare da un terzo litigante (il quale non è affatto certo che godrà mai) per altri due, tre mesi di riprese, appuntamenti al buio alla luce delle telecamere, scontri violenti con i figuranti del pubblico in studio.

Amici è per uno show tradizionale, per un musical, perlopiù (perché fatto di musica, ballo, recitazione) quello che Uomini e Donne è per il sentimento o per il sesso. O per l’idea che Maria De Filippi ha del sentimento in televisione. Amici non fa altro che rimandare per un anno uno spettacolo di musical che non avverrà mai. E non solo perché quasi nessuno dei partecipanti avrà mai un vero ruolo in un musical, ma perché lo scopo di questi show è nascondere malissimo l’insicurezza che hanno a rappresentare finalmente una bella finzione ben recitata, ben scritta e ben musicata, nascondendosi dietro il dito della verità, del realismo che c’è in un backstage infinito che procrastina, di puntata in puntata, la vera messa in onda di qualcosa che forse, ormai, il pubblico non capirebbe più: una messa in scena autenticamente fittizia. L’unico realismo su un palco è fingere tutto, con l’onesta del professionista che abbraccia sulla scena un personaggio al cui interprete caverebbe gli occhi a mani nude, se potesse, dietro le quinte. Oppure di quello che riesce a morire benissimo per spada o di veleno, nella fiction, e poi una volta a casa non riesce a vivere neanche un po’.

Riconosciuto questo, domenica scorsa puntata mozzafiato. Non solo Maria riesce a non farsi ingrassare dal chiarore delle sue vesti, e senza mostrare neanche per un istante di parteggiare per il team del bianchi contro i neri. In più, gustosissimi RVM in cui la concorrente Roberta espone sul doppiogiochismo di Cassandra, facendola quasi piangere e sfruculiandola attraverso doppi sensi tratti dalla canzone Bandiera Gialla, che non tutti riescono a comprendere, tranne la diretta interessata che fa buon viso a cattivo gioco e comincia a cantarla, segnando senz’altro un punto a favore sulla sua rivale storica. Mentre al giovane Jurmino viene indicata una cura infallibile per la calvizie, si prepara il clou dell’episodio. Maria Luigia viene drasticamente eliminata dal gioco e, non contenta, decide di cantare fra le lacrime giustificate dalle stecche e le stecche giustificate dalle lacrime il suo pezzo forte: Il mare d’inverno di Loredana Berté. Tutto è salvo, finché “the show must go back”.

lunedì 11 febbraio 2008

Doc3, da prendere al Volo

(in edicola il 9 febbraio 2008)

Se ci fate attenzione, il giovedì notte - neanche tanto inoltrata - Fabio Volo conduce Doc 3, una rassegna di documentari soprattutto internazionali, molto curata da Flavia Scollica e Lorenzo Hendel. Il vecchio Volo, per una volta, non è colto nel solito ruolo che lo contraddistingue ovunque, dal cinema alla radio: del conduttore o attore in onda per caso, carburato dalla sola invidia del prossimo che non sia al suo posto, risultando antipatico o simpatico ai più (secondo l’orientamento più o meno meritocratico dei soggetti campione) proprio perché non sembrava essere in grado di fare nulla di quello che gli era richiesto, prima di farlo e basta, e anche discretamente bene, c’è da dire. Qui, a condurre sobriamente una trasmissione di nicchia, senza ospiti succinte che lo baciano sulla fronte, riesce bene e basta. E non è che si tratti solo di annunciare pierobonescamente un titolo, e poi nascondere la mano, dietro le quinte del privilegio di guadagnarsi da vivere in una metropoli giurando sui propri beni più cari che quei film, su Rete 4, sono veramente Bellissimi. E’ come se al tempo stesso chiedesse scusa per tutti quei film di Alessandro D’Alatri e ci dimostrasse che c’era un motivo per arrivare così, intatto dalla nostra buona considerazione, fin qui, a Doc 3, per stupirci con questa trasmissione così sobria, eppure cinematografica.

Grande lavoro, quello che viene proposto nell’ultima puntata andata in onda: “China Blue”, viaggio nelle fabbriche di mancati sogni per migliaia di piccolissimi lavoratori cinesi. Viene introdotto da una rappresentante dell’associazione dal bel nome “Abiti puliti”, che si occupa di sensibilizzare sull’origine anche degli indumenti più firmati che ci troviamo a indossare. Parla come una Anna Galiena innervosita delle grandi occasioni, e quando si rilassa è solo una Margherita Buy, per un attimo, leggermente meno timida ma comunque nervosissima. Ma ha una causa importante e originale da sostenere, e anche se non lo fa da professionista navigata della comunicazione televisiva, lo fa, e per fortuna il documentario che segue al suo intervento è talmente ficcante e ben realizzato, che è costato la galera al suo regista Micha X Peled e, se il nervosismo di lei aumenterà ancora, almeno aumenta di pari passo pure il nostro, a vedere quello che c’è da vedere.

La fabbrica di Lifeng appare come una piccola Cinecittà all’esterno, uno di quei posti che sai che non saranno neanche lentamente simili a come appaiono fuori, una volta dentro. Solo che invece di essere scalcinata fuori, e fintamente ricca dentro, come sono i set, è pulita e rilassante fuori, e l’inferno dentro. Soprattutto, colpisce l’uso delle tecnologie informatiche, all’interno di qualcosa che considereresti medievale nella sua bestialità. O, forse, è ancora più medievale controllare di fatto ogni piccola operaia con una webcam, oltreché naturalmente multarla un po’ per ogni singolo minuto di ritardo. Guardare come vengono distribuiti e consumati i pasti (detratti dalla paga) di quella che è una vera e propria parodia di una mensa. Passati attraverso una feritoia in tanti piattini tutti diversi, ma all’apparenza ugualmente sporchi, non vengono poi consumati in uno spazio comune, ma nelle singole stanze e stanzette che gli operai occupano nella stessa fabbrica in cui prestano lavoro. Quando il documentario finisce pensiamo, per mezzo dei jeans che indossa Fabio Volo, anche quanto sono brutti i nostri.

domenica 10 febbraio 2008

GF: un successo continuo, perché?

(in edicola l'8 febbraio 2008)

Per questa parte dell’anno, Sky Vivo propone una doppia programmazione. Sintonizzatici sul canale 109 della piattaforma, l’ambita schermata da cui scegliere liberamente di che morte morire, in modalità interattiva, se Amici di Maria De Filippi o Grande Fratello. Per questa volta scegliamo il Grande Fratello e ci troviamo di fronte agli split screen che hanno contribuito a rendere famoso il reality-show di Canale 5 almeno quanto i rutti o le innovazioni nel corteggiamento. Fingiamo per un articolo di non saperne e non volerne sapere di più, dei personaggi che agiscono all’interno della nota casa, più o meno alle 13 di ieri. La massima concentrazione di persone, è evidente, è nel primo riquadro sulla sinistra, quello che rappresenta quello che accade in giardino. Nel secondo, un ometto attualmente grande come un Oompa Loompa da fabbrica di cioccolato, ma particolarmente inoperoso, passa e ripassa il pavimento con uno scopettone, con grande svogliatezza e superficialità, forte del fatto di non poter essere visto da nessuno se non da diverse centinaia di migliaia di persone che non possono raggiungerlo con una secchiata in testa, per la sua inoperosità.

Nel giardino, alcuni giovanotti e fanciulle prendono il sole, in modalità da solarium montano, su divanetti e pouf tipici da locale per aperitivi con poca qualità e pochissima quantità nel buffet. Altri, dopo aver preso il sole, saltano una sorta di cavallina di gommapiuma, con capriola, in una prefigurazione delle tipiche prove di Buona Domenica che ha il valore rappresentativo di visione, come da santo in estasi. Solo, collettiva e niente affatto beneaugurale. Alcune donne hanno degli addominali micidiali. Certi uomini pronunciano delle frasi dal senso incompiuto o errato. Una voce dall’oltretomba annuncia: “Cambio batteria a tutti”, e per questi pesciolini è come una zaffata di nuovo, sebbene ciclico, nella routine. Vale a dire qualcosa che per noi è pura puzza di mangime o senso del dovere verso quelle creatura minuscola, che pure ci decorano la stanza, e in grande difficoltà senza di noi, per loro la vita stessa, se non le guardassimo e nutrissimo all’occorrenza.

Una giovanissima donna dai capelli ricci è bellissima, come quelle belle che uno spero abbiano da qualche parte qualche tara, anche solo mentale, per potercele avvicinare. E invece, a sentirla parlare, siamo così instupiditi noi stessi dalla grazia con cui dice - agli amici lì presenti, beninteso, niente affatto a noi - “Feci il primo bacio a 13 anni e mezzo con un fidanzato di due anni”, che ci sembra anche intelligente e riflessiva quanto basta per essere per sempre irraggiungibile. Dentro l’abitazione, un uomo espone le sue ascelle pelose a una ragazza vestita di tutto punto, che sembra non fare troppo caso al fatto che lui sia convinto di trovarsi in televisione. Gli racconta cosa le piace davvero fare, che gente vedere, e la maggior parte dei punti dell’elenco lui non capisce o fa finta malissimo di capire. Se torniamo fuori, anche se nel quarto riquadro, il primo sulla destra, stavolta, si gioca a calcio usando come pali di una porta le suddette poltroncine da aperitivo. Nella versione del lunedì sera, questo show è uno dei programmi di maggior successo nel nostro paese dopo otto edizioni, e un motivo ci sarà. Basta solo che nessuno ci venga a dire, ora, con precisione quale.

giovedì 7 febbraio 2008

Piazza Grande, la tv dei reality

(in edicola il 7 febbraio 2008)

Questa stagione di Piazza Grande - il programma di Michele Guardì famoso perché tutti i conduttori fingono malissimo di starsi simpatici o anche solo di avere un rapporto normale fra di loro – non sarà certamente ricordata per il modo in cui Monica Leofreddi interpreta l’estetica chubby chic. Né, probabilmente, per come Michele Guardì reinventi, per la decima o undicesima volta di seguito, il ruolo che si è ritagliato nello show che dirige e scrive: da mago di Oz piccolo e nascosto, che cerca di incutere timore agli astanti ingigantendo la sua voce con trucchi di scena e, soprattutto, non facendosi mai vedere. In realtà, forse questa stagione di Piazza Grande non sarà ricordata affatto, ma noi vogliamo ricordarla così: come un emblema del peggio della vecchia televisione dell’era pre-reality, contaminata nel vivo dal peggio dell’era del reality, unitamente anche a un pizzico del peggio della televisione del piagnisteo. Forte del suo stile “horror vacui”, per cui ogni spazio lasciato vuoto sullo schermo deve essere occupato da uno o più conduttori canterini o cantanti conduttori o da Fiordaliso, il programma deve vantare davvero un pubblico affezionatissimo e disposto a tutto - anche a vedere quell’uomo di mondo di Giancarlo Magalli spesso schifatissimo della situazione, e simulare attrazione per Silvia Mezzanotte con l’entusiasmo con cui andrebbe dal dentista.

Da qualche giorno, alle 11 del mattino, si comincia con una sezione dello show denominata “Sanremissimo”. Un gioco che non sarebbe piaciuto neanche negli anni ’80 ai fan più motivati di Albano e Romina. Eppure, eccolo lì, che campeggia azzurrino sul mega-monitor alle spalle dei nostri, quel titolo fatto di font a nuvoletta, mentre giustamente il solito Magalli sfotte la Leofreddi per l’acca vanamente troppo aspirata dell’home theatre in palio per noi, e ringrazia Fiordaliso, perfidamente, per l’aver indossato un cinturone con scritto Fiorda sulla fibbia, “in modo da poter sapere qual è il davanti”. Senza Magalli tutto ciò non avrebbe davvero senso, nemmeno come intrattenimento ad alto costo, beninteso. Sul secondo gioco, quello classico con le buste, per intenderci, niente da maledire: è una formula che, dobbiamo ammetterlo, fu geniale e che, per quanto non ringiovanisca, certo non invecchia.
È sempre bellissimo poter vedere allineati tutti quei piccoli premi e premietti, non i mitici, visionari gettoni d’oro tipici di una vecchia Fininvest, ma reali, concreti: anche autoradio, sveglie particolarmente perforanti, insomma tutte cose che potreste già avere o aver rubato nella vostra vita, elencate così con modestia e onestà da ricettatori di sogni di piccolo calibro ma senza troppi rischi di vederli sfumare alla prima interruzione pubblicitaria.

Quel carretto coi premi è davvero uno dei più simboli della televisione di ieri, che può fare a meno per qualche volta delle conquiste furbette o idiote di quella di oggi. Ma il piagnisteo deve pur ritornare, e ci sono purtroppo le interviste coi casi umani a ricordarcelo sempre, fra un gioco e l’altro. E qui non basta la ferma perfidia di Magalli, né il cambio d’abito che dimagrisca della Leofreddi, a vincere una tendenza evidentemente imposta dall’alto, anche da più in alto del “Comitato”. Ma anche solo per quelle radioline, saremo per sempre grati a Michele Guardì e a tutti i conduttori – o almeno quelli non strettamente musicali – del suo programma del mattino.

Se Mediaset fa acqua sul web

(in edicola il 6 febbraio 2008)

Se c’è un campo (e pure importante) in cui i nostri due maggiori network televisivi, Rai e Mediaset, non temono la concorrenza reciproca, è quello dei portali web. L’una - la rete pubblica - forse perché è ragionevolmente convinta di essere superiore in tutto e per tutto alla rivale. E non parliamo solo dell’immensità delle sue “Teche” (l’archivio dello scibile Rai) o dei suoi forum e blog, peraltro molto, molto limitati nell’effettiva usabilità. L’altra, quella privata, perché si dimostra mese dopo mese, upgrade dopo update, evidentemente non ancora interessata ad avere una reale presenza su internet. E questo, non solo perché Mediaset sembra essere ancora del tutto ignara del cosiddetto “secondo” web (per il blogger inflazionato: 2. 0) , quello della rivoluzione anti-copernicana che porta l’utenza, e non più solo il produttore di contenuti, al centro dell’esperienza della comunicazione, o della non-comunicabilità, che dir si voglia. Attraverso una facilità mai conosciuta nella storia, da parte del fruitore di altri media, a esprimere opinioni il più possibile grammaticali sullo stesso media che propone i contenuti da commentare, condividere, infamare. Con moderazione o senza, con moderatori o gli autori stessi che hanno voluto la bicicletta, e commentano a loro volta i commenti dei loro fan o nemici personali.

Il tutto su una stessa piattaforma più semplice e leggere dei grossi portali che hanno conosciuto il loro apice, e il loro fallimento, nella “prima repubblica” del web, anche italiano. Chi voglia demolire più o meno educatamente un servizio di Tg2 Costume e Società su quanti siano i peccati che ancora ad oggi Valeria Marini deve perdonare a Vittorio Cecchi Gori (edizione recentissima) , può farlo non solo sul suo blog personale illeggibile o non letto, ma anche a partire dai vari link a gruppi di discussione che sono ben visibili nella home istituzionale Rai. Se ha perso quel servizio, o non ricorda esattamente se la supposta cocaina fu trovata in auto o a palazzo Borghese, con una certa abilità nel cliccare e ricliccare lo troverà nella pagina dedicata al telegiornale di riferimento, per poi demolirlo con ancora più cognizione di causa. Mediaset non propone neanche i suoi canali e i loro programmi, non diciamo in streaming diretto - come avviene per fortuna per tutte le radio italiane, e per qualche canale tv locale particolarmente illuminato o sovvenzionato - ma nemmeno in forte differita, se non a pagamento, grazie all’assurdità della piattaforma Ri-Video, dai costi incerti e dal sistema di pagamento da sito di suonerie e sfondi di cellulare. Figuriamoci la suddetta interattività con l’editore.

L’unica concreta utilità del portale Mediaset. it è controllare la fonte più autorevole possibile sugli orari di distribuzione dei palinsesti. I più affezionati di Claudio Brachino lo troveranno più o meno ovunque nella pagina, costretto in un banner intermittente e fastidioso come un insetto dalle fattezze particolarmente antropomorfe, che ci ricorda il prossimo tema del programma Top Secret: “Un gruppo di ricercatori alle prese con un mostro”. Opera certamente di qualche content editor in vena di ammutinamento. Il tutto in un’atmosfera da web fine anni ’90, retrò e citazionista delle difficoltà tecniche a gestire contenuti video e audio che c’erano a quei tempi, ora ampiamente risolte da semplici accorgimenti come una certa coscienza, una certa voglia di aggiornarsi e una forte dose di quell’atteggiamento noto come autocritica.

martedì 5 febbraio 2008

Telegrolle, la sorpresa del pollo

(in edicola il 5 febbraio 2008)

Fra le numerose mancate sorprese che hanno abbondato come sempre, in occasione del conferimento delle Telegrolle di Saint-Vincent, spicca per qualità e onestà il premiato della categoria cartoon, Gino il pollo di Andrea Zingoni (testi) e Joshua Held (disegni). Le grolle, si sa, sono il recipiente tipico valdostano da cui più persone, per mezzo di più beccucci, possono bere la stessa bevanda calda e corroborante. Una perfetta scelta per un premio televisivo: notevolissima la metafora del liquido riscaldato che il pubblico sorbisce come in un rito collettivo, salvo per il fatto che, spesso, la televisione non risulta affatto corroborante. Tornando a Gino il pollo, il personaggio, che nacque come un fenomeno del web dalla satira e dal parodismo scorretto, risultò imborghesito ai pregiudizi degli affezionati, quando se ne seppe che sarebbe sbarcato su Rai Tre e in 52 puntate, dalla durata e dallo sforzo ben superiore a quelli che di norma richiedevano 5 minuti in cui si accusava Osama Bin Laden, in canzone, di voler “fare ‘o talebano” col petrolio di papà, o Berlusconi di telefonare troppo spesso a Bush.

Ma fu grande la sorpresa di ritrovare il pollo in forma smagliante anche alle prese non più con i personaggi dell’attualità internazionale, ma con mostri deformi e scienziati pazzi. Anzi, il rischio è solo che gli spettatori più smaliziati dello show non riescano a capire la differenza. Per il resto, parlando dell’edizione 2008 del premio, che si svolge al Casinò de la Vallée di Saint-Vincent ogni anno con dei conduttori e un disturbatore meno affiatati, non si può fare a meno di citare alcuni fondamentali episodi. Per prima cosa, il workshop sulla fiction moderato da Maurizio Costanzo, colto in un ruolo, fra i tantissimi che copre, che ci era sfuggito: “direttore artistico delle manifestazioni” del suddetto casinò. A parte questa novità, in realtà il suo principale intervento è apparso quanto mai interessante, per quanto molto impopolare presso le due principali categorie di pubblico presenti in sala ala momento della discussione: critici e giornalisti di tv, e attori di fiction e soap.

Il punto è che il suo discorso si articolava precisamente in due fasi: una, in cui dichiarava che non esiste una vera e propria critica televisiva in Italia, e la seconda, in cui proponeva un abbassamento dei cachet per gli attori di fiction e soap. O, meglio, un’uniformazione dei cachet fra i famosi e non, i bravi e non. Per quanto riguarda i critici si può obbiettare ai detrattori del discorso di Costanzo che in realtà, forse, ognuno ha i critici che si merita, come le mogli, ad esempio. In secondo luogo, grande emozione, anche da parte delle altre categorie di pubblico, per la presentazione in anteprima di una nuova fiction Mediaset che, realmente, si prepara ad essere una delle migliori di questa stagione televisiva: “I liceali” di Lucio Pellegrini, con tanto di sceneggiature rivedute, sebbene non si sappia quanto corrette, da Paolo Virzì in persona. L’idea sarebbe quella di ripartire, ma per sei puntate, dove il grande successo cinematografico de La scuola si era fermato, e porci nel mezzo un Giorgio Tirabassi (uno che raramente ha deluso) nel ruolo del professore di campagna capitato fra degli allievi completamente nuovi, ma non o pariolini o zecche, come la letteratura e il cinema di Federico Moccia ci hanno abituato, ma dotati di infinite vie di mezzo.

lunedì 4 febbraio 2008

Tg la7: ossessionato dalle news

(in edicola il 2 febbraio 2008

La ricetta della qualità del telegiornale de la7 è apparentemente semplice: deve solo costare molto in termini di coscienza e sguardi – non troppo ammirati, ma continui – ai colleghi dei tg internazionali. Gli ingredienti sono pochi ma ottimi. Assenza di alcuna mania di protagonismo o persecuzione, da parte del mezzobusto che conduce; proprietà di linguaggio come se piovesse; assenza totale anche di servizi su backstage di calendari di riviste per giovanotti, anche eventualmente inediti. Fin troppo austero, a volte, ma ormai ampiamente bilanciato dalla presenza sempre più forte nel palinsesto di programmi satellite di approfondimento, è l’opposto di Studio Aperto: non è affatto ossessionato, insomma, da quella particolare personificazione della notizia (per dirla in termini retorici) che su Italia Uno è ritenuta la donna nuda. Il tg la7 è solo ossessionalo dalla notizia di per sé, in senso letterale.
Si pone un ragionevole equilibrio fra desiderio irrealizzabile e irrealizzato di obbiettività e necessità di non dichiarare il falso su piccole e medie verità che sarebbe da omissione di soccorso non rendere note anche attraverso la forza delle immagini televisive.

Fra i conduttori orchestrati da Piroso, su tutti spicca per rigore Flavia Fratello: immediata, mai inquadrata troppo da vicino né troppo da lontano, non sarà chiamata a comparire dal sultano del Brunei ma sa come riferirsi col nome dei vecchi proprietari secenteschi a ciascuno dei palassi del potere che cita, ad esempio, come se realmente sapesse di quello che sta parlando. Cosa di cui siamo troppo abituati a dubitare, col resto delle colleghe, per crederle subito (con due ordini di eccezioni: quelle concretamente troppo ben messe fisicamente per cercare il pelo nell’uovo – e qui siamo chiaramente vittime del sistema – e le saldissime rivali del tg2 quando sono in forma e il direttore si è un po’ distratto sul controllo “qualità”). Curioso come una telegiornalista così severa e minimal - da giro di perle e nulla più- provenga da network giovanilistico-musicali. La scenografia dello studio è sempre stata molto coerente con lo stile giornalistico del tg, con la sola aggiunta relativamente recente della scrivania del conduttore dotata di doppio 7 del logo dl network incrociato, leggermente stonato se inquadrato dall’alto, soprattutto, come avviene per qualche secondo all’inizio delle trasmissioni.

Sobri font stile Apple per i titoli delle principali notizie si alternano in sovrimpressione per tutta la durata del tg. Ogni tanto qualche dubbio che qualcosa si possa concedere alla tendenza Brachino, anche a queste latitudini di austerity, lo danno servizi come quello di oggi sul caro frappe, nell’edizione di mezzogiorno. Ma nessuno è perfetto e, del resto, perché rischiare di non far sapere come si possa fare correttamente informazione in tv – e su tutto il resto della proposta - anche a chi non può fare a meno di servizi come quello, per non cambiare subito canale, e rintanarsi nelle calde braccia di una nonna che ha perso un gatto per la terza volta in dieci giorni, su Studio Aperto?

Sposini, si riparte da Telenorba

(in edicola il 1° febbraio 2008)

Lamberto Sposini, prima e principale vittima della strada della nuova Mediaset dell’infotainment integralista, ha deciso di ripartire da uno dei più notevoli canali privati locali del Sud, e anche del resto del Paese, a ben vedere: su Telenorba, con il talk di approfondimento Versus. Storica rete pugliese fondata da un ingegnere di Conversano sulle ceneri di una tenuta agricola di famiglia, nel 1976, Telenorba è amata da tutto il tacco d’Italia non solo perché officiò brillantemente il culto di Colpo Grosso, per i locali a corto di Oden Tv e di idee più brillanti per trascorrere i sabati sera degli anni Ottanta. Oltreché a lanciare su tutta la penisola il talento inequivocabile di Emilio Solfrizzi e di Antonio Stornaiolo.

È un network radicatissimo, con redazioni ormai giovani e vivaci ovunque, sul territorio che serve: il Molise, la Basilicata, oltre alla Puglia e alla Calabria Jonica. Sposini ha confezionato un talk schietto e onesto, ma anche relativamente raffinato per scenografia di studio e livello dei servizi esterni. Dotato insomma di scarpe grosse (popolo intervistato, mai edulcorato né troppo sceneggiato) e cervello fino (opinionista ospitato, spesso aumentato nella credibilità - soprattutto se non “locale” - per il fatto stesso di partecipare a una trasmissione di questo tipo). Rocco Casalino, che raccoglie testimonianze di vita vissuta risulta, come ai tempi del primo Grande Fratello, cui partecipò, o non classificabile o poco pervenuto. Tutto, insomma, dagli studi di Lamberto, grida vendetta, sincerità e non solo “Non è la Rai”, ma anche: “Non è manco Mediaset”.

Puntata genuina fra le genuine quella di questo mercoledì, sull’aumento del costo della vita, che sa rivolgersi come poche altre al pubblico nazionale, senza perdere in metafore agricole tipiche delle coltivazioni pugliesi da parte degli ospiti più in forma.
Su tutti, brilla mr. Prezzi, il Dottor Antonio Lirosi, il garante governativo dei prezzi. Bellissimo come anche nel titolone sullo schermo compaia il titolo di dottore per Lirosi, uno di quei provincialismi benigni che in un istante restituiscono dignità a interi ordinamenti accademici. Qualche gaffe psico-attitudinale di Sposini sui nuovi poveri non fa calare di troppo il livello della puntata: “non solo barboni, ma gente piena di dignità”.

L’intervista di Carlo Melina all’imprenditore della pasta marchigiano che ha cercato di vivere con lo stipendio dei suoi dipendenti vale tanto oro quanto dura: priva di doppi fondi ma ricca di livelli di lettura. Un imprenditore messo bene, lombardo e a ridotto impatto ambientale, con parlantina da parente di concorrente di reality, spiega in studio la ricetta per la salvezza sulla terra, poco prima, senza che per un attimo Lamberto lo prenda né troppo sul serio, né pensi del tutto ad altro. È questo il talk che vogliamo. Ottimo sempre il concetto della scenografia, in cui lo schermo che mostra i servizi cozza idealmente contro la realtà televisiva, cui è legato dalla V di Versus, tracciata dai designer dal grande monitor alle sedie degli ospiti.

venerdì 1 febbraio 2008

Cult Book, il culto del libro

(in edicola il 31 gennaio 2008)

Uno dei migliori programmi prodotti da Rai Educational è Cult Book, va in onda il martedì, perfino dopo il Tg3 Night News (quanto di meno cultistico il palinsesto dell’ora tarda proponga), e parla di libri talmente grandi, belli e letti nel passato, che risultano ormai di nicchia o, appunto, di culto, e si finisce per parlarne a quelle ore, ma con molto stile e che immagini sceltissime. E’ l’opposto formale e sostanziale della rubrica di Alain Elkann su la7, “Due minuti un libro”: non solo è piacevole da guardare, ma parla solo di libri degni di attenzione. Non basta il forte sconto della pena, in metraggio della puntata, da parte di Alain, a farci preferire il suo storico programma a quello inventato da Stas’ Gawronski, critico letterario e autore televisivo dal blog personale solidissimo.
Oltre alla già detta - e fondamentale - operazione culturale di considerare come delle piccole novità da scoprire, insieme, capolavori universali e reali romanzi recenti e già dimenticati, Cult Book si avvale della grande capacità dei suoi autori di rendere il più possibile multimediale non solo il libro in questione, ma anche e soprattutto le opinioni e le idee che su di esso hanno espresso artisti, registi e anche qualche vero critico nel corso della vita dell’opera, che spesso è immortale, e alle volte comincia qualche secolo fa.

Di Don Chisciotte, ad esempio, ci parla tanto Stas’ quando Orson Welles: l’uno, a leggerne una buona traduzione Einaudi, sulla sua poltrona di scena fra la scenografia minimal e i “pop-up” di carta virtuale che qua e là spuntano per lo studio, mentre la narrazione prosegue o si interrompe. Quelle pagine tridimensionali, così palesemente immaginarie, perché computerizzate, che ornano anche gran parte della sigla di Cult Book, altro non sono che il manifesto della trasmissione: visualizzare all’improvviso un personaggio dimenticato o troppo amato per volerlo ricordare molto spesso, che sbuca da un angolo apparentemente televisivo della vita, e che ci appare un attimo perfettamente reale, un altro del tutto letterario, cosa che senz’altro gli rende più facile il compito di non essere mai esistito. Welles, nel frattempo, in un’intervista dimenticata ai più, confessa che un Don Chisciotte è la battaglia d’Anghiari leonardesca della sua vita di regista grandissimo nelle idee e nel successo, una delle poche che portò avanti in lunghi anni di sperimentazioni di sola passione, senza sapere se il più grande rischio poetico sarebbe stato finirla o non finirla.

Le ricostruzioni di libro che ci fa Stas’ sono dunque tanti piccoli dvd di soli extra, che sono una grande sorpresa del lettore già avvezzo a considerare la base della propria vita letteraria Cervantes o Potocki, per averli ritrovati in tv e così bene in arnese, quanto dello spettatore televisivo abituale o perfino stanziale, che non aveva mai pensato che qualcosa di studiato male a scuola potesse ricordargli tanto i piaceri della vita che non ha mai avuto. Ci auguriamo che presto la trasmissione diventi cult almeno una piccola parte di quanto non siano già i temi che tratta, e che in questo le si utile anche l’intervento divino della rete, che ha trovato su Youtube un spazio più indulgente della notte, per quanto Educational, di Rai Tre.

mercoledì 30 gennaio 2008

Johnny Palomba, il colombiano

(in edicola il 30 gennaio 2008)

E’ un notevolissimo Antonello Piroso quello che ci guida nei meandri della psiche del duca Leopoldo Mastelloni, attore e concorrente di reality, lunedì, in Niente di personale. Ma Mastelloni che inveisce contro i tre o quattro “sistemi” che non lo capiscono più come un tempo è solo un dettaglio, tanto è irripetibile lo sfondo su cui la sua ospitata si staglia, e il resto delle ospitate stesse, a dire il vero. Per un attimo non ci pare di essere nel pieno corso una rubrica di approfondimento del tg di la7, ma a casa di una persona estremamente intelligente, che abbia la fortuna di potersi far truccare prima di ricevere i suoi ospiti e di saper porre loro domande molto interessanti. Certo, avevamo visto anche in altre occasioni il giornalista di punta del settimo canale nazionale un po’ fuori dalla solita parte, e indulgere in battute relativamente piccanti e quasi in romanaccio, senza mai però perdere di un briciolo di credibilità e autorevolezza. Un Mentana misurato e mai fuori luogo, per intenderci, con qualche grossa percentuale di savoir faire in più.

Ma nemmeno le più ghiotte occasioni per Antonello - come l’intervista musicata a Lucio Dalla - possono nulla contro il vero evento della puntata di questo lunedì: la presenza di Johnny Palomba in studio. Johnny Palomba, non tutti lo sanno, è il più grande critico cinematografico umoristico italiano. Molti si chiederanno: quale critico cinematografico non è umoristico, di questi tempi. Ma evidentemente non avranno letto le sue micro-recensioni in una battuta fulminante, come quella, immortale, che dedicò a Ray, il film biografico su Ray Charles: “Tutta la vità a creà soni su e giù pe’ storganetto a tastoni”. E’ un uomo misterioso, che compare solo più bardato di un subcomandante, anche nei siparietti con Nanni Moretti che ci stanno togliendo parte del sonno, su Youtube e live. Per lungo tempo le sue opere - tecnicamente: le sue recinzioni - sono state recitate da Valerio Mastrandrea presso la Dandini.
Ora, Palomba, che già pubblicava con Fandango Libri, è stato nominato direttore di Radiofandango e di Fandango Tv, sempre creature dell’instancato Domenico Procacci.

E ha deciso dunque di comparire in televisione e di dimostrare di essere il più possibile realmente colombiano, grazie all’accento, come più volte si è trovato a sostenere nelle varie biografie non autorizzate che ha scritto egli stesso. Quello che qui conta di più non è però la presenza di spirito e l’ironia, doti che già gli tributavamo abbondantemente, e neanche il rapporto dialettico che riesce in breve a intrattenere con Mastelloni, quanto il piccolo cadeau che presenta a Piroso e al suo pubblico: un’autentica “recinzione” del programma stesso di Piroso. Capirete che dopo eventi del genere anche la presentazione del nuovo tour di Eugenio Finardi con Eugenio presente può poco. Suona la sua canzone che fa “dolce Italia, la gente più sincera”, attuale come What a wonderful world mentre Hitler invade la Polonia, e poi non se ne sa più nulla, per quanto risponda numerose domande di Piroso. La parte impegnata del programma è affidata a Mario Giordano contro Bianca Berlinguer.

martedì 29 gennaio 2008

Cinematografo, il Marzullo ok è quello della domenica

(in edicola il 29 gennaio 2008)

Per molti appassionati, il Marzullo vedibile resta quello della domenica. Non solo perché Cinematografo è lungi dall’essere insignificante, sebbene sarà difficile crederlo per chi non frequenta assiduamente la fascia notturna dei palinsesti, o non la frequenta con scopi talk, ed è dunque afflitto da decennali pregiudizi sui mancati cambi di cravatta del giornalista avellinese.
Ma soprattutto perché questo programma, se visto con coscienza e magari con quel briciolo di attenzione in più rispetto a uno spot di Sanremo, può dirci molto anche del resto della nostra televisione, più o meno come scrivono certi autori col gusto del macabro o della malattia di certi stati alterati della salute umana, che mettono in una luce più chiara del resto del corpo, anche se era apparentemente in salute.

Cinematografo, in verità, svolge due ruoli fondamentali. Uno è quello di cesura fra il week-end e la il lunedì mattina. Quello che può notare ogni giorno - fra il giorno e la sua notte - chi guardi Marzullo in Sottovoce, succede su larga scala la domenica, fra una settimana e l’altra. Ogni notte Gigi ci accompagna in territori dalla difficilissima percorribilità, con mano ferma e salda, se non altro perché le sue puntate sono ovviamente registrate. Ai confini labilissimi fra il dovere e il piacere, fra la fine del fine settimana e l’inizio della vita reale, si pone una dimensione da realismo magico tedesco, in cui tutto quanto di più irreale avviene come per leggi ferree, come per un’altra fisica o una nuovo biologia niente affatto approssimativa, ma solo mostruosa. Il secondo è far parlare Selma Dell’Olio in televisione, non importa a che ora avvenga, e chi la guardi.

Un mondo in cui si passano minuti a porle domande su un dubbio di pronuncia inglese, se il resto del parterre tace perché, forse, troppo immedesimato nella parte dell’essere in onda alle 2 di notte. Nascono nuove lingue, dai suoni fintoesotici, come solo Hollywood sa emettere, e fra cui è proprio Selma la stele di Rosetta, il perno su cui il possibile tutto gira, possibilmente fermandosi quando Gianluigi Rondi, il grande vecchio della critica cinematografica italiana, non ne può più davvero. E’ per questo che la moglie di Giuliano Ferrara è sempre più conduttrice morale del talk sul cinema, con Marzullo ospite fisso, e non già viceversa. Forte del suo essere stata allevata almeno per una certa parte della tarda adolescenza in USA, Selma è del tutto convinta di poter dire ciò che pensa di qualunque cosa, e ciò include anche fare gaffe su traduzioni anche solo di titoli di blockbuster notissimi (esempio: quella di Be Cool con Uma Thurman, che sarebbe anche celebre, oltre che memorabile, se qualcuno avesse visto quella puntata).

E’ una di quelle amiche che hanno più o meno tutti nella vita, di quelle che sentendoti parlare di Harry Potter con poca convinzione, sono capaci di interromperti scandalizzate dicendo: “Ma come, tu Albus Dumbledore lo chiami ancora Silente, come hanno scritto nell’edizione italiana?”, con lo stesso sdegno francesistico di Carla Bruni in un’imitazione di Fiorello.
Amiamo Selma Dell’Olio perché ci ricorda ogni settimana da dove veniamo e dove non andremo mai.