lunedì 25 febbraio 2008

Zodiaco, oltre il pregiudizio

(in edicola il 22 febbraio 2008)

Zodiaco, il film per la tv spiegato ovunque da Antonio Marano come la risposta italiana e torinocentrica a Csi ed Ncis, si è concluso mercoledì, lasciandoci ancora una volta sorpresi per la qualità degli interpreti (anche se non della sceneggiatura, un po’ troppo pedante e didascalica per un soggetto esoterico, para-psicologico come questo) e per come, almeno in questo caso, sia stato facile superare, nella visione, i pregiudizi negativi che spesso generano dichiarazioni di direttori di rete come quelle di cui sopra. Per tacere poi delle conferenze stampa in sale con arazzi. Torino è dunque sempre più la piccola capitale morale del cinema e della fiction, fotogenica ma misteriosa il giusto, come i porticati, come le colline intorno, come la Fiat, alle volte.

Zodiaco racconta di come un serial killer colto - d’altri tempi - passi il tempo ad uccidere secondo un ordine astrologico. In particolare, insegue Ester (Antonia Liskova, la pianista-terrorista de La Meglio Gioventù), figlia naturale mai riconosciuta né conosciuta dal capofamiglia di una “dinasty” di banchieri, che verrà eliminata a poco a poco, fino ad arrivare a lei. Riguardo la produzione, bisogna mettere bene in chiaro che davvero, questa volta, si è rasentato un certo coraggio, nel mandare avanti questo tipo di progetto, retrò, complesso, forse non per tutti, qualora sceneggiato rendendo giustizia al soggetto, come si diceva. Perché il lavoro francese di cui la Rai e la Casanova Entertainment di Luca Barbareschi avevano comprato i diritti per la televisione italiana era pronto per il doppiaggio. Invece, si è tenuto al remake, ambientando il tutto in Piemonte e deamericanizzando il più possibile dei personaggi fin troppo macchiettistici e stereotipati, come soprattutto il super-poliziotto-medio, che da noi è reso da Massimo Poggio, e molto bene.

Forse, proprio per questo, una dirigenza del settore Fiction già potenzialmente sconvolta per la qualità, sulla carta, del prodotto, deve aver cercato irreparabilmente di limitare slanci dialogistici che l’avrebbero resa orfana di pubblico o di nuovi incarichi. E così, purtroppo, inquadrature che abbiamo visto raramente su Rai Due incontrano, ahimé, scambi di battute che invece ascoltiamo ogni giorno, pur resi impeccabilmente, ma mai sovrarecitate, come si dice, e neppure da Vanni Corbellini, qui nel ruolo dell’erede della Dinasty detto Pierre. Per via della camera estremamente mobile, spesso a mano, e anche in momenti istituzionali e codificati per la nostra fiction come nella bella scena della lettura del testamento del capoclan, ci sono poche scene che ci pare di aver già rivisto o anche solo visto, e qui il merito è del regista Eros Puglielli.

Notevoli pure il clima anni ’70 - e le citazioni del cinema di quel tempo - che si respirano ovunque, dalle colluttazioni appositamente approssimative (con annesso sangue raffazzonato), ai bambini che girano in bici, nei parchi, di notte. Insomma, non c’è un solo momento, neanche quando ci troviamo negli interni giorno delle villone di famiglia Santandrea, in cui ci pare essere in una puntata speciale di Cento Vetrine. E, beninteso, c’erano apparentemente pochi motivi per cui una circostanza del genere non dovesse capitare. Per il resto, quando va molto bene, ci sembra di essere in un Dario Argento dimenticato e recitato bene.

giovedì 21 febbraio 2008

La concorrenza sostenibile dell'Italia sul 2

(in edicola il 21 febbraio 2008)

Più il tempo passa e più la formula dell’Italia sul Due si attesta e si stabilizza come un dei pochi modi sostenibili di fare concorrenza con una mano sulla coscienza - e l’altra didietro - al colossale successo di Uomini e donne su Canale 5. Il talk, pur molto tristemente orfano dei cambi d’abito di Monica Leofreddi, e del modo in cui erotizzavano in parte la conduzione di Milo Infante, con l’avvento di Roberta Lanfranchi e della sua piccola dote di ospiti che non sarebbero mai andati dalla Leofreddi – al netto di quelli che purtroppo sarebbero andati solo per la Leofreddi – resta un caposaldo del pomeriggio televisivo in due ordini di realtà.
Il primo, l’antipastone, il sempre notevolissimo sceneggiato (mini-scene da qualche minuto, commentate dagli ospiti) su suocere che rompono o cognate che stanno dalla parte del marito. Che ha la missione, sempre più determinata, seppure tacita, di dimostrare semplicemente, con il minimo sforzo, come i reality siano destinati a finire il giorno in cui si riconoscerà un’altra volta, pubblicamente e ciclicamente, che è molto più difficile e utile rappresentare una buona finzione di una pessima realtà, almeno finché si parla di opere dell’ingegno.

Deve essere una complicatissima perversione che ha fatto scegliere agli autori o chi per loro la formula vincente di proporre queste scene recitate con molta teatralità, vocioni da doppiatori vecchia scuola su temi apparentemente molto banali e quotidiani (“lo sai che ti ho promesso il polpettone” pronunciati come “domani è un altro giorno”), salvo poi farne oggetto di discussione per Franco Oppini o Cristina Quaranta come se fossero realmente accadute, come se fossero appunto parte di un reality di cui si facesse la parodia dei lunghi commentari che spesso li accompagnano. Solo, terminata la prima parte, in genere si passa a una grossa contraddizione, nel secondo ordine di realtà. Un personaggio o più reduce da reality anche di diversi anni fa, targati Rai (addirittura spesso si risale fino a Il Ristorante) viene sottoposto a numerose domande su come la sua vita sia cambiata dopo la partecipazione a quel programma, che gli ha ridato fama e mancato successo.

Alle volte, però, e un reality della Rai partecipa un concorrente con un po’ di spessore e storia in più sulle spalle, come il caso, mercoledì, di Riccardo Fogli. Che riesce a raccontarsi in modo semplice, a efficace, fino ad avere parole di affetto in video per l’insegnante di matematica della scuola serale che sta frequentando. È molto intenso il ricordo, viceversa, che di Riccardo Fogli presenta un “ricco e povero”, come del resto dichiara espressamente il suo sottopancia, senza fornire altro nome. Storpiando a bella posta il titolo dello show in cui divisero una stanza e Loredana Bertè in “Beauty Farm”. L’ex bello dei Pooh possiede anche un suo folto numero di groupie maschi adoranti, in studio, che è davvero il colpo di grazia su ogni gruppo di corteggiatrici sull’altro canale, dalla De Filippi. Fogli è un tronista “nature, mai rifatto”, come sostiene con occhio languido Ivan Cattaneo, mentre lo spoglia, lo riveste, con gli occhi disegnati dalla vera ammirazione per un ospite insolitamente educato e generoso.

Una fiction da esportazione: Caravaggio

(in edicola il 21 febbraio 2008)

Finalmente, con quella su Caravaggio, le fiction Rai possono vincere, di lunedì, non solo contro il Grande Fratello di Canale 5, ma anche contro il nostro pregiudizio, ben rifocillato e rinvigorito dagli ultimi saggi del loro genere, che i nostri pregiudizi su di esse siano fondati. Alessio Boni è in parte come non lo era dai tempi della Meglio Gioventù, soprattutto dopo la parte in cui si toglie la vita. Quei tempi ci avevano per un attimo fatto dimenticare che, tutto sommato, non è che stessimo parlando di un pluripremiato oltreoceanino che non rinnegava le sue origini bergamasche, ma di un attore ex-Incantesimo, per quanto di buone letture e addetto ai lavori di surriscaldamento delle signore da casa. Eppure, con questa prova, Alessio davvero si inserisce nel meglio degli interpreti di sceneggiati moderni italiani, con una certa grazie e un chiaro sforzo di consultazione di fonti dalla produzione del maestro (del resto, bergamasco come lui) e soprattutto dalla tanta e controversa letteratura artistica su Merisi.

Boni sa guardarsi le ferite, quasi gioire di quanto siano terrene, al termine di un lungo viaggio in barca; e poi farci toccare con mano una Santa Martire, mentre la dipinge, e lei tende al cielo con la stessa intensità con cui il pittore, una scena prima, tendeva alla malaria o almeno a una notevole febbre. E questo significa aver colto almeno una grossa parte del senso dell’esistenzialismo ante-litteram nella produzione di quel maestro, così ispirato dalla sua realtà da riuscire a rappresentare un’altra, e invisibile, rendendola però come tangibile anche a noi, per via di una serie di miracoli che ripeteva in un certo numero all’anno, che si chiamano tele, pale, e pochissimi affreschi di dubbia attribuzione ma di immenso fascino. Nella fiction diretta da Angelo Longoni (che non si è avvalso, come capitò al film del 1948, addirittura della co-regia di Roberto Longhi, il grande critico d’arte, ma che comunque dimostra di avere grande gusto e grandi collaboratori alla sceneggiatura) ci sono scene che avremmo voluto vedere con tutto il cuore.

Sono quelle in cui Caravaggio è stordito da uno dei viaggi rocamboleschi vicini alla sua fine, e dunque nel periodo più tragico, colmo di sensi di colpa, e di quegli autobiografismi macabri che renderanno capolavori di un nuovo corso gli ultimi dipinti, dopo le pur coltissime nature morte, apparentemente solo perfette, ma anche esse gravide di simbolismi (come ha mostrato, fra i primi, Maurizio Calvesi, fra gli storici illuminanti su questi temi). Ma nonostante questo, come accade nella fiction, ad esempio, all’approdo a Siracusa, in fuga per salvarsi la vita, il maestro non riesce a non avvedersi della bellezza di un tavolo di giocatori, e di quello che avrebbero rappresentato per lui dieci anni addietro, al colmo dell’ispirazione per la parte “bassa” del suo lungo bilancio fra terra e cielo, spunto e ispirazione, come tutti i grandi del suo tempo e non solo nel suo campo d’azione. E di scene così ce ne sono diverse nel corso delle due puntate di domenica e lunedì. E il fatto che ne siano state concepite e realizzate anche alcune di tipo “invertito”, cioè prefigurazione del dramma psicologico terminale, anche alla corte del cardinal del Monte o dei Giustiniani, è il merito più grande di un’ottima fiction da esportazione.

martedì 19 febbraio 2008

Isoardi, la post-velina di successo

(in edicola il 19 febbraio 2008)

Elisa Isoardi. Il vero motivo italiano per non uscire del tutto di sabato pomeriggio ha un nome e un cognome che non ti sanno subito di televisione, ma di qualcosa di più elevato: da violinista, da grande ricamatrice o intagliatrice, quantomeno da poetessa dilettante che non si aspetta di pubblicare troppo, ma di decantarsi nel privato. Ha dei modi di essere, di volta in volta, la spalla di Galeazzi, l’intervistatrice bon ton, la mattacchiona sexy, alla sua età, che la collocano in sola una stagione alle vette della conduzione femminile sui nostri palinsesti, dopo una gavetta del resto sopra le righe, per conto del superiore Guido Bartolozzetti, presso Italia che vai. Non c’è bella conduttrice di Uno Mattina Estate, pure epurata per eccesso di qualità nella conversazione, che possa reggere il passo di Elisa. Forse, per trovare una venticinquenne tanto mens sana in corpore sano dobbiamo risalire ai momenti in cui Caterina Balivo rinnega meno la sua napoletanità, ma probabilmente sarebbe una ricerca vana.

Elisa è al tempo stesso la più telegiornalistica delle strappone (come amano definire le donne di grande fascino le columnist dei femminili alla moda italiani, e quelle di Amica, da non confondere mai con l’oggetto di questo tipo di riflessioni) e la più vivace e multiforme delle intrattenitrici. Parla di Afghanistan e di campionato con le stesse modulabilissime voci e posizioni della riga di lato: e dunque sempre differenti ma coerenti con un’idea del mondo che vorremmo abbracciare anche noi. Non è uno sfottò: è un grande merito, almeno ai nostri occhi, saper parlare anche con una riga. Si può lavorare con impegno e classe anche quando capita il piccolo miracolo di farlo in televisione, e speriamo per molti altri anni. Si può non solo essere belle e intelligenti, come sospettiamo non possano, tutto sommato, non essere la maggiore parte delle post-veline che restano a galla negli anni. E con post-veline intendiamo tutte le femmine da tv che hanno già archiviato la relativa fase, unitamente a quelle che non lo sarebbero mai state, veline.

Ma il bello, e grazie a Isoardi lo sappiamo meglio, è che ci possono essere anche delle post-veline meno furbe o anche solo meno ingenerose, che riescono ancora a dare a una telecamera qualcosa che non si può né contrattualizzare né tantomeno chiedere, qualcosa di prezioso e al tempo stesso impagabile: una piccola parte di se stesse. Non rifarti mai, Elisa, e intervista sempre Franco Di Mare con la stessa espressione poco ammirata per l’ennesimo brutto che piace, ma che a te no; e che magari sa anche parlare, ma tu sai parlare ancora meglio, come hai fatto questo sabato. Non essere vittima di quel sistema. Non intervistare troppi attoroni hollywoodiani, però. Questo non perché tu non ne saresti in grado, ma perché innanzitutto sapere che magari hai anche un’ottima pronuncia dell’inglese sarebbe troppo, coi tempi che corrono. E qualcuno potrebbe portarti via da Rai Uno, o da noialtri. Se non ti può avere presto Sanremo o un tuo programma di infotainment del pomeriggio, è meglio che non ti abbia nessuno.

lunedì 18 febbraio 2008

Friedman insuperabile ad Artù

(in edicola il 16 febbraio 2008)

L’ospitata di Alain Friedman da Artù, giovedì sera, è ancora più folgorante di quella di Casini da Santoro. Eppure Casini ha parlato per un quarto d’ora di idiozie sugli omosessuali pronunciate da suoi compagni di partito, mentre Maurizio Belpietro rideva, soprattutto all’espressione “arrotarli”. Non che abbiamo niente di particolare in favore degli omosessuali, soprattutto quando cercare di adottare, o di adottarci. Però Casini ha fatto senz’altro un colpaccio con quel dialogo, cattolicesimo illuminato quanto basta e via di parlantina con la “zeta”. Ma tant’è. Non tutto il bene viene per giovare, evidentemente, di pari passo col male (come lo stesso sulfureo Belpietro, del resto, che riesce comunque sempre più amabile, mano a mano che invecchia, molto bene del resto. Questa parentesi è stata aperta per farlo sogghignare per tracce di froceria, comunque). Fatto sta che Friedman da Gene Gnocchi è stato insuperabile.

Non contento di aver rivoluzionato per sempre il nostro concetto di divulgatore economico in televisione, se ne avevamo già uno, Alain è anche l’uomo dall’accento straniero meglio affettato che conosciamo, meglio anche di Ela Weber ed Heather Parisi messe insieme a dialogare in cinese mandarino a una convention poco coinvolgente. La puntata di Artù è dedicata all’inutilità delle banche e delle pensioni (in generale, dunque, all’economia perditempo). E Alain non poteva mancare davvero. Forte del video introduttivo, magistrale, che rappresenta due pensionati che rapinano in quattro modi diversamente ingegnosi la stessa banca, si collega da Londra, e niente è come prima.

Sornione, straniero eppure furbissimo, l’economista professionista consiglia come soluzione al problema delle rapine invertite (quelle che le banche fanno a noi) un uovo di Colombo, una soluzione dietro l’angolo, e poco economisti noi a non pensarci: fare più “shopping” fra le banche. Perfino la sosia di Beatrice Borromeno, neanche tanto nascosta, fra il pubblico, riesce a ridere di quella che non è, infatti, una battuta. “Dobbiamo imparare a spostare il business da una banca all’altra. Bisogna saper scegliere fra le banche, quando non ti danno soddisfazione”. Ha una risposta davvero per tutto. Tranne che alla domanda sulla carenza di belle donne agli sportelli delle banche, non sapendo cosa significhi “la gnocca”. Inglese anche se americano, risponderà non troppi secondi dopo: “Forse sono tutte andate a lavorare per Alitalia”. E’ sempre interessante come alcuni programmi di satira, debbano essere spesso in dubbio se far imitare un personaggio come Friedman da attori, oppure farlo interpretare da se stesso, risparmiando sui costi di un Crozza, di un Max Tortora, e guadagnando spesso in comicità. Friedman è davvero l’emblema dell’ospite non incisivo, non rilevante, eppure sempre al suo posto, dove c’è bisogno di qualcuno che, pure nel mezzo di una tragedia come quella del customer care delle banche italiane, o anche solo quella della loro esistenza, riesca a farti pensare che ci possono essere ben altri problemi a farla da padrone, anche se sbarchi il lunario, e perfino nella capitale britannica.

Rai Due, il cartoon assicurato

(in edicola il 15 febbraio 2008)

Il mattino di Rai Due, fino alle 10, è dedicato da molti anni - come quello di Italia 1, ad esempio - ai cartoni animati. Ora, ci siamo sempre chiesti come mai fino alle 10, visto che i bambini in età da cartone non violento o, in generale, i bambini di buon livello come sono quelli che guardano i cartoni di buon livello, alle 8 sono a scuola. La soluzione, che ci è venuta in mente ieri, mentre guardavamo Kim Possible (uno dei migliori senza dubbio), prevede che in realtà si tratti di una sorta di sistema assicurativo, un po’ perverso ma efficace. La noia o lo sgomento per molti grandi che non riescono o comprendere il fascino di quei cartoni, o a tornare bambini - o a uscire in tempo per lavorare, o proprio non riescono a lavorare - nel vedere quei cartoni, è il premio assicurativo che il resto dei clienti paga perché i veri bambini che marinano la scuola in casa, o sono realmente malati, possano tranquillamente vedere molti cartoni a un orario curricolare. Deve essere per questo motivo che i bambini che marinano la scuola in casa, poi, sono così tranquilli, durante il soggiorno sul divano, e non necessariamente per i primi sensi di colpa di una vita da gesuitici mentitori.

Oltre a Kim Possibile, l’altro grande capisaldo fra queste produzioni dedicate ai piccoli, è Scuola di Vampiri. Kim Possible (produzione Disney, vincitore di Emmy) racconta le avventure di una giovane paladina delle giustizia che, con la stessa grazia, combatte tanto i professori in classe quanto il crimine più o meno organizzato a livello internazionale, e non è detto che il primo dei due tipi di missione le riesca più facile dell’altro. Il tutto con una carica di parodismo nei confronti del classico genere cinematografico spionistico che spesso supera in sottigliezza casi analoghi tratti dal mondo degli adulti, o dei bambini non anagrafici che si prendono troppo sul serio. Scuola di Vampiri, d’altro canto, è una produzione italiana, dalla bella sigla di testa (“il sole porta solo guai”) e dai dialoghi che certamente omaggiano, con l’umiltà di chi sta imparando bene, la scuola di magia di Hogwarts inventata dalla Rowling per Harry Potter. Rievocata non solo nell’ambientazione, dunque, anche se sottoponendola a un gioco dei contrari, per cui qui sono gli apparentemente cattivi che si formano.

Quello che un po’ ci delude, fra questa programmazione, è il cartoon digitale “I miei amici Tigro e Pooh”, sebbene siamo grandi estimatori di Winnie The Pooh e dei suoi nascosti lati semiologicamente intriganti (il primo pupazzo di pezza già oggetto di meta-merchandising anche nella fiction in cui compare per la prima volta: prodotto-giocattolo già in partenza, insomma). Non solo è rivolto a un target decisamente più giovane dei pur giovanissimi cui è rivolto l’originale Pooh, ma anche a dei giovanissimi poco attenti, auguriamo agli autori (e ai bravi doppiatori italiani), per la varie incongruenze e le numerose mancate occasioni di comicità che costellano il corso delle puntate. E’ un Winnie decisamente sotto tono, insomma. I bambini sanno essere davvero i critici più spietati.

venerdì 15 febbraio 2008

Troppo relax per Markette

(in edicola il 14 febbraio 2008)

Markette, forse, si sta rilassando troppo. E non che questa stagione abbia particolari allori su cui farlo. Martedì si avvia stranamente lentissimo, con un’intervista al paparazzo Massimo Sestini svogliata e priva di qualsiasi conseguenza comica o anche solo vagamente chiambrettiana. Dieci minuti di Chiambretti Speciale (la solita anteprima furba alla Antonio Ricci che spezza in due il programma, ai fini del miglior rilevamento Auditel possibile) dedicati a come sia spericolato questo fotografo, che riprese il parto di Brigitte Nielsen, e che è ormai talmente famoso che viene paparazzato a sua volta, e deve nascondersi e camuffarsi come una star. Quando Sestini comincia ad aver voglia di definire il confine fra diritto di cronaca e privacy - e con che faccia, seriosissimo, quasi inalberato - ci rendiamo conto che qualcosa non è andato nel consueto svolgimento delle funzioni dei collaboratori di Chiambretti, come se fosse una puntata che vada a un solo gemello riminese o con qualche ballerina di troppo, che non sfigura ma appesantisce.

Ha dei pantaloni rossi, con cui si sarebbe potuto mimetizzare solo a Ostia la notte estiva fino a un anno fa, e porta molto rancore a tutti quanti quelli che non gli dicano che è molto più di un paparazzo. Sempre molto seriamente. Ci vuole Jo Champa in persona che annunci una sua rubrica di markette internazionali, prossimamente su La7, per ridare animo a pubblico e Chiambretti, oltre a restituirci entrambi i gemelli in forma smagliante, cioè un poco ulteriormente ingrassati e molto di buon umore per questo.
Un giovane nel parterre ha tanti anelli alle dita delle mani quanto anni di carriera come cromatologo free-lance: troppi per non affascinare la nonnina che gli siede accanto, e per non meritarsi un saluto ad personam da Chiambretti che annuncia il primo vero ospite: Aldo Nove.

Le stagiste lavorano come sempre al loro compito: leggere per finta, davanti al pubblico, i libri che noi non avremmo il coraggio neanche di scroccare in una Feltrinelli. Sono un simbolo riuscitissimo dell’antivelina: non la donna come metafora dell’ispirazione terrena di molte notizie, e di interi modi di fare notizia (testate giornalistiche comprese), ma come risultato dell’informazione, effetto della culturalità, quando ricevute abbastanza superficialmente, se di cattiva qualità, da non modificare il buon gusto e i bei capelli. Riescono sempre ad avere una buona parola per qualunque scrittore – anche Moccia, se solo Chiambretti volesse - e, sorridendo graziosamente, ne incoraggiano la lettura in cambio di quei sapienti tocchi di obbiettivo che ce le rende così desiderabili.

Con Aldo Nove non avrebbero questo compito, così grato. Uno dei pochi scrittori relativamente alla moda che è meno simpatico di persona che nei libri che scrive, Aldo non si toglie il cappotto neanche in studio, con tutto il rispetto, e parla con una voce da candidato doppiatore di Woody Allen in italiano in un post Oreste Lionello che non vorremmo davvero mai immaginare.
Eppure Costantino-Maga Maghella – chiaramente ubriaco dell’Heineken che non si riserva di mettere da parte - ha una carta da tarocco prontissima per lui e il futuro del suo ultimo libro, appena viene il suo turno di esporre: l’arma chimica (spopolerà, sottotitola). Costantino ingiustamente buono da ubricaco non si può vedere. Nove, del resto, non è per niente sollevato. Sipario.

giovedì 14 febbraio 2008

La chiesa del cardinal Vespa

(in edicola il 13 febbraio 2008)

Se c’è stata una puntata di Vespa, fra le ultime, che non ci si sarebbe potuti perdere per niente al mondo (e nemmeno per la bella puntata de La storia siamo noi dedicata a Fiorello, su Rai Due nel frattempo), questa era lunedì, dedicata alla Madonna di Lourdes e al misticismo di Alessandra Borghese. Naturalmente, in osservanza del tema, un parterre di ospiti esponenti del mondo dei miracolati non poteva mancare, come del resto avviene ogni sera infrasettimanale. Non mancano medici con molte frontiere (a sostenere l’impossibilità che eventi miracolosi possano pregiudicare l’andamento di una cura in clinica), la suddetta vaticanista bella, il nostro amatissimo Massimo Giletti (che non delude neanche questa volta le nostre attese). Il salotto di Vespa, all’occorrenza, riesce a farsi da modellino in scala del nostro vituperato Parlamento (o di luoghi di delitti irrisolti), a modellino della Chiesa Cattolica. Bruno regge il modello quasi fisicamente, come accade a tanti santi della tradizione iconografica che, per secoli, sono stati rappresentati proprio accanto a una Madonna con un piccolo edificio religioso in mano, che era un ricordo della basilica o del monastero che avevano personalmente fondato.

La televisione, fatta così, è sempre più Chiesa, nel senso propriamente barocco, sebbene spesso, a parità di illusioni, con molto meno gusto: un strumento per convogliare sguardi ed emozioni verso una verità che attende al centro di tutto. Al termine del percorso che un fedele compie quando entra nella navata, e la attraversa fra le pitture; e uno spettatore, ugualmente, quando accende il televisore, e lo guarda fisso, fra le iatture. Questa volta, la verità non è soltanto credere di far credere che i miracoli esistano, come ognuno di noi ha tutto il diritto di fare, anche in televisione, perché in fondo i miracoli potrebbero avvenire davvero, se tutto questo può davvero succedere nel febbraio 2008. Anzi, se non lo credessimo almeno in televisione saremmo dei senza cuore, come si dice di quelli che non riescono ad essere almeno socialisti a vent’anni. Il punto è mostrarsi ammirati di una donna come le Borghese, credere al suo fervore mistico non come alla genialata comunicativa di una falsa magra e fintissima tonta, ma a una verità da settimanale “Gente” in seconda serata, quando i lettori di Gente o Oggi o sono a nanna, oppure hanno almeno qualche altra freccia al loro arco di fruitori di media, e non possono stare con le mani in mano.

L’unico che resiste all’effetto Marcellino pane e vino è proprio Giletti. Scettico come un San Tommaso, invece di mettere il dito nelle evidenti piaghe di tanti discorsi che fanno acqua da tutte le parti, cede alla tentazione, di tanto in tanto, di accavallare le gambe e ridersela sotto i ciuffetti, mentre si propongono degli spezzoni della Bernadette del 1943 e nessun ospite sano di mente può fare a meno di notare la somiglianza straordinaria della sua interprete con la stessa Alessandra Borghese. Vespa non era mai stato, recentemente, così tanto corrispondente all’imitazione che di lui ci ha donato Tullio Solenghi, quella cardinalizia: unico momento di ritorno alla qualità di un attore altrimenti completamente decaduto, e ce ne dispiace.

mercoledì 13 febbraio 2008

Amici, rimandare all’infinito

(in edicola il 12 febbraio 2008)

Fra gli show capostipiti e campioni della tendenza che amiamo definire “Ciccio” (dal nipote di Nonna Papera che amava rimandare tutto), Amici di Maria De Filippi, e in genere tutto ciò che conduce Maria De Filippi, non può che ritagliarsi un posto d’onore. Se ci fate caso, i programmi vincenti di oggi, in televisione, sono quelli che propongono una formula di show affermata in epoche precedenti (a volte anche vite precedenti) salvo rimandare all’infinito la sua concretizzazione, la sua attuazione. Marta Flavi proponeva “Agenzia matrimoniale”, consegnando, nel passare di una sola puntata, una donna a un uomo in cerca? Maria De Filippi, in Uomini e Donne, allunga la fase del corteggiamento - i preludi dei prodromi dei preliminari - a due, tre mesi di trattative, che spesso si concludono con una delle due parti che rinuncia all’altra e comincia a farsi corteggiare da un terzo litigante (il quale non è affatto certo che godrà mai) per altri due, tre mesi di riprese, appuntamenti al buio alla luce delle telecamere, scontri violenti con i figuranti del pubblico in studio.

Amici è per uno show tradizionale, per un musical, perlopiù (perché fatto di musica, ballo, recitazione) quello che Uomini e Donne è per il sentimento o per il sesso. O per l’idea che Maria De Filippi ha del sentimento in televisione. Amici non fa altro che rimandare per un anno uno spettacolo di musical che non avverrà mai. E non solo perché quasi nessuno dei partecipanti avrà mai un vero ruolo in un musical, ma perché lo scopo di questi show è nascondere malissimo l’insicurezza che hanno a rappresentare finalmente una bella finzione ben recitata, ben scritta e ben musicata, nascondendosi dietro il dito della verità, del realismo che c’è in un backstage infinito che procrastina, di puntata in puntata, la vera messa in onda di qualcosa che forse, ormai, il pubblico non capirebbe più: una messa in scena autenticamente fittizia. L’unico realismo su un palco è fingere tutto, con l’onesta del professionista che abbraccia sulla scena un personaggio al cui interprete caverebbe gli occhi a mani nude, se potesse, dietro le quinte. Oppure di quello che riesce a morire benissimo per spada o di veleno, nella fiction, e poi una volta a casa non riesce a vivere neanche un po’.

Riconosciuto questo, domenica scorsa puntata mozzafiato. Non solo Maria riesce a non farsi ingrassare dal chiarore delle sue vesti, e senza mostrare neanche per un istante di parteggiare per il team del bianchi contro i neri. In più, gustosissimi RVM in cui la concorrente Roberta espone sul doppiogiochismo di Cassandra, facendola quasi piangere e sfruculiandola attraverso doppi sensi tratti dalla canzone Bandiera Gialla, che non tutti riescono a comprendere, tranne la diretta interessata che fa buon viso a cattivo gioco e comincia a cantarla, segnando senz’altro un punto a favore sulla sua rivale storica. Mentre al giovane Jurmino viene indicata una cura infallibile per la calvizie, si prepara il clou dell’episodio. Maria Luigia viene drasticamente eliminata dal gioco e, non contenta, decide di cantare fra le lacrime giustificate dalle stecche e le stecche giustificate dalle lacrime il suo pezzo forte: Il mare d’inverno di Loredana Berté. Tutto è salvo, finché “the show must go back”.

lunedì 11 febbraio 2008

Doc3, da prendere al Volo

(in edicola il 9 febbraio 2008)

Se ci fate attenzione, il giovedì notte - neanche tanto inoltrata - Fabio Volo conduce Doc 3, una rassegna di documentari soprattutto internazionali, molto curata da Flavia Scollica e Lorenzo Hendel. Il vecchio Volo, per una volta, non è colto nel solito ruolo che lo contraddistingue ovunque, dal cinema alla radio: del conduttore o attore in onda per caso, carburato dalla sola invidia del prossimo che non sia al suo posto, risultando antipatico o simpatico ai più (secondo l’orientamento più o meno meritocratico dei soggetti campione) proprio perché non sembrava essere in grado di fare nulla di quello che gli era richiesto, prima di farlo e basta, e anche discretamente bene, c’è da dire. Qui, a condurre sobriamente una trasmissione di nicchia, senza ospiti succinte che lo baciano sulla fronte, riesce bene e basta. E non è che si tratti solo di annunciare pierobonescamente un titolo, e poi nascondere la mano, dietro le quinte del privilegio di guadagnarsi da vivere in una metropoli giurando sui propri beni più cari che quei film, su Rete 4, sono veramente Bellissimi. E’ come se al tempo stesso chiedesse scusa per tutti quei film di Alessandro D’Alatri e ci dimostrasse che c’era un motivo per arrivare così, intatto dalla nostra buona considerazione, fin qui, a Doc 3, per stupirci con questa trasmissione così sobria, eppure cinematografica.

Grande lavoro, quello che viene proposto nell’ultima puntata andata in onda: “China Blue”, viaggio nelle fabbriche di mancati sogni per migliaia di piccolissimi lavoratori cinesi. Viene introdotto da una rappresentante dell’associazione dal bel nome “Abiti puliti”, che si occupa di sensibilizzare sull’origine anche degli indumenti più firmati che ci troviamo a indossare. Parla come una Anna Galiena innervosita delle grandi occasioni, e quando si rilassa è solo una Margherita Buy, per un attimo, leggermente meno timida ma comunque nervosissima. Ma ha una causa importante e originale da sostenere, e anche se non lo fa da professionista navigata della comunicazione televisiva, lo fa, e per fortuna il documentario che segue al suo intervento è talmente ficcante e ben realizzato, che è costato la galera al suo regista Micha X Peled e, se il nervosismo di lei aumenterà ancora, almeno aumenta di pari passo pure il nostro, a vedere quello che c’è da vedere.

La fabbrica di Lifeng appare come una piccola Cinecittà all’esterno, uno di quei posti che sai che non saranno neanche lentamente simili a come appaiono fuori, una volta dentro. Solo che invece di essere scalcinata fuori, e fintamente ricca dentro, come sono i set, è pulita e rilassante fuori, e l’inferno dentro. Soprattutto, colpisce l’uso delle tecnologie informatiche, all’interno di qualcosa che considereresti medievale nella sua bestialità. O, forse, è ancora più medievale controllare di fatto ogni piccola operaia con una webcam, oltreché naturalmente multarla un po’ per ogni singolo minuto di ritardo. Guardare come vengono distribuiti e consumati i pasti (detratti dalla paga) di quella che è una vera e propria parodia di una mensa. Passati attraverso una feritoia in tanti piattini tutti diversi, ma all’apparenza ugualmente sporchi, non vengono poi consumati in uno spazio comune, ma nelle singole stanze e stanzette che gli operai occupano nella stessa fabbrica in cui prestano lavoro. Quando il documentario finisce pensiamo, per mezzo dei jeans che indossa Fabio Volo, anche quanto sono brutti i nostri.

domenica 10 febbraio 2008

GF: un successo continuo, perché?

(in edicola l'8 febbraio 2008)

Per questa parte dell’anno, Sky Vivo propone una doppia programmazione. Sintonizzatici sul canale 109 della piattaforma, l’ambita schermata da cui scegliere liberamente di che morte morire, in modalità interattiva, se Amici di Maria De Filippi o Grande Fratello. Per questa volta scegliamo il Grande Fratello e ci troviamo di fronte agli split screen che hanno contribuito a rendere famoso il reality-show di Canale 5 almeno quanto i rutti o le innovazioni nel corteggiamento. Fingiamo per un articolo di non saperne e non volerne sapere di più, dei personaggi che agiscono all’interno della nota casa, più o meno alle 13 di ieri. La massima concentrazione di persone, è evidente, è nel primo riquadro sulla sinistra, quello che rappresenta quello che accade in giardino. Nel secondo, un ometto attualmente grande come un Oompa Loompa da fabbrica di cioccolato, ma particolarmente inoperoso, passa e ripassa il pavimento con uno scopettone, con grande svogliatezza e superficialità, forte del fatto di non poter essere visto da nessuno se non da diverse centinaia di migliaia di persone che non possono raggiungerlo con una secchiata in testa, per la sua inoperosità.

Nel giardino, alcuni giovanotti e fanciulle prendono il sole, in modalità da solarium montano, su divanetti e pouf tipici da locale per aperitivi con poca qualità e pochissima quantità nel buffet. Altri, dopo aver preso il sole, saltano una sorta di cavallina di gommapiuma, con capriola, in una prefigurazione delle tipiche prove di Buona Domenica che ha il valore rappresentativo di visione, come da santo in estasi. Solo, collettiva e niente affatto beneaugurale. Alcune donne hanno degli addominali micidiali. Certi uomini pronunciano delle frasi dal senso incompiuto o errato. Una voce dall’oltretomba annuncia: “Cambio batteria a tutti”, e per questi pesciolini è come una zaffata di nuovo, sebbene ciclico, nella routine. Vale a dire qualcosa che per noi è pura puzza di mangime o senso del dovere verso quelle creatura minuscola, che pure ci decorano la stanza, e in grande difficoltà senza di noi, per loro la vita stessa, se non le guardassimo e nutrissimo all’occorrenza.

Una giovanissima donna dai capelli ricci è bellissima, come quelle belle che uno spero abbiano da qualche parte qualche tara, anche solo mentale, per potercele avvicinare. E invece, a sentirla parlare, siamo così instupiditi noi stessi dalla grazia con cui dice - agli amici lì presenti, beninteso, niente affatto a noi - “Feci il primo bacio a 13 anni e mezzo con un fidanzato di due anni”, che ci sembra anche intelligente e riflessiva quanto basta per essere per sempre irraggiungibile. Dentro l’abitazione, un uomo espone le sue ascelle pelose a una ragazza vestita di tutto punto, che sembra non fare troppo caso al fatto che lui sia convinto di trovarsi in televisione. Gli racconta cosa le piace davvero fare, che gente vedere, e la maggior parte dei punti dell’elenco lui non capisce o fa finta malissimo di capire. Se torniamo fuori, anche se nel quarto riquadro, il primo sulla destra, stavolta, si gioca a calcio usando come pali di una porta le suddette poltroncine da aperitivo. Nella versione del lunedì sera, questo show è uno dei programmi di maggior successo nel nostro paese dopo otto edizioni, e un motivo ci sarà. Basta solo che nessuno ci venga a dire, ora, con precisione quale.

giovedì 7 febbraio 2008

Piazza Grande, la tv dei reality

(in edicola il 7 febbraio 2008)

Questa stagione di Piazza Grande - il programma di Michele Guardì famoso perché tutti i conduttori fingono malissimo di starsi simpatici o anche solo di avere un rapporto normale fra di loro – non sarà certamente ricordata per il modo in cui Monica Leofreddi interpreta l’estetica chubby chic. Né, probabilmente, per come Michele Guardì reinventi, per la decima o undicesima volta di seguito, il ruolo che si è ritagliato nello show che dirige e scrive: da mago di Oz piccolo e nascosto, che cerca di incutere timore agli astanti ingigantendo la sua voce con trucchi di scena e, soprattutto, non facendosi mai vedere. In realtà, forse questa stagione di Piazza Grande non sarà ricordata affatto, ma noi vogliamo ricordarla così: come un emblema del peggio della vecchia televisione dell’era pre-reality, contaminata nel vivo dal peggio dell’era del reality, unitamente anche a un pizzico del peggio della televisione del piagnisteo. Forte del suo stile “horror vacui”, per cui ogni spazio lasciato vuoto sullo schermo deve essere occupato da uno o più conduttori canterini o cantanti conduttori o da Fiordaliso, il programma deve vantare davvero un pubblico affezionatissimo e disposto a tutto - anche a vedere quell’uomo di mondo di Giancarlo Magalli spesso schifatissimo della situazione, e simulare attrazione per Silvia Mezzanotte con l’entusiasmo con cui andrebbe dal dentista.

Da qualche giorno, alle 11 del mattino, si comincia con una sezione dello show denominata “Sanremissimo”. Un gioco che non sarebbe piaciuto neanche negli anni ’80 ai fan più motivati di Albano e Romina. Eppure, eccolo lì, che campeggia azzurrino sul mega-monitor alle spalle dei nostri, quel titolo fatto di font a nuvoletta, mentre giustamente il solito Magalli sfotte la Leofreddi per l’acca vanamente troppo aspirata dell’home theatre in palio per noi, e ringrazia Fiordaliso, perfidamente, per l’aver indossato un cinturone con scritto Fiorda sulla fibbia, “in modo da poter sapere qual è il davanti”. Senza Magalli tutto ciò non avrebbe davvero senso, nemmeno come intrattenimento ad alto costo, beninteso. Sul secondo gioco, quello classico con le buste, per intenderci, niente da maledire: è una formula che, dobbiamo ammetterlo, fu geniale e che, per quanto non ringiovanisca, certo non invecchia.
È sempre bellissimo poter vedere allineati tutti quei piccoli premi e premietti, non i mitici, visionari gettoni d’oro tipici di una vecchia Fininvest, ma reali, concreti: anche autoradio, sveglie particolarmente perforanti, insomma tutte cose che potreste già avere o aver rubato nella vostra vita, elencate così con modestia e onestà da ricettatori di sogni di piccolo calibro ma senza troppi rischi di vederli sfumare alla prima interruzione pubblicitaria.

Quel carretto coi premi è davvero uno dei più simboli della televisione di ieri, che può fare a meno per qualche volta delle conquiste furbette o idiote di quella di oggi. Ma il piagnisteo deve pur ritornare, e ci sono purtroppo le interviste coi casi umani a ricordarcelo sempre, fra un gioco e l’altro. E qui non basta la ferma perfidia di Magalli, né il cambio d’abito che dimagrisca della Leofreddi, a vincere una tendenza evidentemente imposta dall’alto, anche da più in alto del “Comitato”. Ma anche solo per quelle radioline, saremo per sempre grati a Michele Guardì e a tutti i conduttori – o almeno quelli non strettamente musicali – del suo programma del mattino.

Se Mediaset fa acqua sul web

(in edicola il 6 febbraio 2008)

Se c’è un campo (e pure importante) in cui i nostri due maggiori network televisivi, Rai e Mediaset, non temono la concorrenza reciproca, è quello dei portali web. L’una - la rete pubblica - forse perché è ragionevolmente convinta di essere superiore in tutto e per tutto alla rivale. E non parliamo solo dell’immensità delle sue “Teche” (l’archivio dello scibile Rai) o dei suoi forum e blog, peraltro molto, molto limitati nell’effettiva usabilità. L’altra, quella privata, perché si dimostra mese dopo mese, upgrade dopo update, evidentemente non ancora interessata ad avere una reale presenza su internet. E questo, non solo perché Mediaset sembra essere ancora del tutto ignara del cosiddetto “secondo” web (per il blogger inflazionato: 2. 0) , quello della rivoluzione anti-copernicana che porta l’utenza, e non più solo il produttore di contenuti, al centro dell’esperienza della comunicazione, o della non-comunicabilità, che dir si voglia. Attraverso una facilità mai conosciuta nella storia, da parte del fruitore di altri media, a esprimere opinioni il più possibile grammaticali sullo stesso media che propone i contenuti da commentare, condividere, infamare. Con moderazione o senza, con moderatori o gli autori stessi che hanno voluto la bicicletta, e commentano a loro volta i commenti dei loro fan o nemici personali.

Il tutto su una stessa piattaforma più semplice e leggere dei grossi portali che hanno conosciuto il loro apice, e il loro fallimento, nella “prima repubblica” del web, anche italiano. Chi voglia demolire più o meno educatamente un servizio di Tg2 Costume e Società su quanti siano i peccati che ancora ad oggi Valeria Marini deve perdonare a Vittorio Cecchi Gori (edizione recentissima) , può farlo non solo sul suo blog personale illeggibile o non letto, ma anche a partire dai vari link a gruppi di discussione che sono ben visibili nella home istituzionale Rai. Se ha perso quel servizio, o non ricorda esattamente se la supposta cocaina fu trovata in auto o a palazzo Borghese, con una certa abilità nel cliccare e ricliccare lo troverà nella pagina dedicata al telegiornale di riferimento, per poi demolirlo con ancora più cognizione di causa. Mediaset non propone neanche i suoi canali e i loro programmi, non diciamo in streaming diretto - come avviene per fortuna per tutte le radio italiane, e per qualche canale tv locale particolarmente illuminato o sovvenzionato - ma nemmeno in forte differita, se non a pagamento, grazie all’assurdità della piattaforma Ri-Video, dai costi incerti e dal sistema di pagamento da sito di suonerie e sfondi di cellulare. Figuriamoci la suddetta interattività con l’editore.

L’unica concreta utilità del portale Mediaset. it è controllare la fonte più autorevole possibile sugli orari di distribuzione dei palinsesti. I più affezionati di Claudio Brachino lo troveranno più o meno ovunque nella pagina, costretto in un banner intermittente e fastidioso come un insetto dalle fattezze particolarmente antropomorfe, che ci ricorda il prossimo tema del programma Top Secret: “Un gruppo di ricercatori alle prese con un mostro”. Opera certamente di qualche content editor in vena di ammutinamento. Il tutto in un’atmosfera da web fine anni ’90, retrò e citazionista delle difficoltà tecniche a gestire contenuti video e audio che c’erano a quei tempi, ora ampiamente risolte da semplici accorgimenti come una certa coscienza, una certa voglia di aggiornarsi e una forte dose di quell’atteggiamento noto come autocritica.

martedì 5 febbraio 2008

Telegrolle, la sorpresa del pollo

(in edicola il 5 febbraio 2008)

Fra le numerose mancate sorprese che hanno abbondato come sempre, in occasione del conferimento delle Telegrolle di Saint-Vincent, spicca per qualità e onestà il premiato della categoria cartoon, Gino il pollo di Andrea Zingoni (testi) e Joshua Held (disegni). Le grolle, si sa, sono il recipiente tipico valdostano da cui più persone, per mezzo di più beccucci, possono bere la stessa bevanda calda e corroborante. Una perfetta scelta per un premio televisivo: notevolissima la metafora del liquido riscaldato che il pubblico sorbisce come in un rito collettivo, salvo per il fatto che, spesso, la televisione non risulta affatto corroborante. Tornando a Gino il pollo, il personaggio, che nacque come un fenomeno del web dalla satira e dal parodismo scorretto, risultò imborghesito ai pregiudizi degli affezionati, quando se ne seppe che sarebbe sbarcato su Rai Tre e in 52 puntate, dalla durata e dallo sforzo ben superiore a quelli che di norma richiedevano 5 minuti in cui si accusava Osama Bin Laden, in canzone, di voler “fare ‘o talebano” col petrolio di papà, o Berlusconi di telefonare troppo spesso a Bush.

Ma fu grande la sorpresa di ritrovare il pollo in forma smagliante anche alle prese non più con i personaggi dell’attualità internazionale, ma con mostri deformi e scienziati pazzi. Anzi, il rischio è solo che gli spettatori più smaliziati dello show non riescano a capire la differenza. Per il resto, parlando dell’edizione 2008 del premio, che si svolge al Casinò de la Vallée di Saint-Vincent ogni anno con dei conduttori e un disturbatore meno affiatati, non si può fare a meno di citare alcuni fondamentali episodi. Per prima cosa, il workshop sulla fiction moderato da Maurizio Costanzo, colto in un ruolo, fra i tantissimi che copre, che ci era sfuggito: “direttore artistico delle manifestazioni” del suddetto casinò. A parte questa novità, in realtà il suo principale intervento è apparso quanto mai interessante, per quanto molto impopolare presso le due principali categorie di pubblico presenti in sala ala momento della discussione: critici e giornalisti di tv, e attori di fiction e soap.

Il punto è che il suo discorso si articolava precisamente in due fasi: una, in cui dichiarava che non esiste una vera e propria critica televisiva in Italia, e la seconda, in cui proponeva un abbassamento dei cachet per gli attori di fiction e soap. O, meglio, un’uniformazione dei cachet fra i famosi e non, i bravi e non. Per quanto riguarda i critici si può obbiettare ai detrattori del discorso di Costanzo che in realtà, forse, ognuno ha i critici che si merita, come le mogli, ad esempio. In secondo luogo, grande emozione, anche da parte delle altre categorie di pubblico, per la presentazione in anteprima di una nuova fiction Mediaset che, realmente, si prepara ad essere una delle migliori di questa stagione televisiva: “I liceali” di Lucio Pellegrini, con tanto di sceneggiature rivedute, sebbene non si sappia quanto corrette, da Paolo Virzì in persona. L’idea sarebbe quella di ripartire, ma per sei puntate, dove il grande successo cinematografico de La scuola si era fermato, e porci nel mezzo un Giorgio Tirabassi (uno che raramente ha deluso) nel ruolo del professore di campagna capitato fra degli allievi completamente nuovi, ma non o pariolini o zecche, come la letteratura e il cinema di Federico Moccia ci hanno abituato, ma dotati di infinite vie di mezzo.

lunedì 4 febbraio 2008

Tg la7: ossessionato dalle news

(in edicola il 2 febbraio 2008

La ricetta della qualità del telegiornale de la7 è apparentemente semplice: deve solo costare molto in termini di coscienza e sguardi – non troppo ammirati, ma continui – ai colleghi dei tg internazionali. Gli ingredienti sono pochi ma ottimi. Assenza di alcuna mania di protagonismo o persecuzione, da parte del mezzobusto che conduce; proprietà di linguaggio come se piovesse; assenza totale anche di servizi su backstage di calendari di riviste per giovanotti, anche eventualmente inediti. Fin troppo austero, a volte, ma ormai ampiamente bilanciato dalla presenza sempre più forte nel palinsesto di programmi satellite di approfondimento, è l’opposto di Studio Aperto: non è affatto ossessionato, insomma, da quella particolare personificazione della notizia (per dirla in termini retorici) che su Italia Uno è ritenuta la donna nuda. Il tg la7 è solo ossessionalo dalla notizia di per sé, in senso letterale.
Si pone un ragionevole equilibrio fra desiderio irrealizzabile e irrealizzato di obbiettività e necessità di non dichiarare il falso su piccole e medie verità che sarebbe da omissione di soccorso non rendere note anche attraverso la forza delle immagini televisive.

Fra i conduttori orchestrati da Piroso, su tutti spicca per rigore Flavia Fratello: immediata, mai inquadrata troppo da vicino né troppo da lontano, non sarà chiamata a comparire dal sultano del Brunei ma sa come riferirsi col nome dei vecchi proprietari secenteschi a ciascuno dei palassi del potere che cita, ad esempio, come se realmente sapesse di quello che sta parlando. Cosa di cui siamo troppo abituati a dubitare, col resto delle colleghe, per crederle subito (con due ordini di eccezioni: quelle concretamente troppo ben messe fisicamente per cercare il pelo nell’uovo – e qui siamo chiaramente vittime del sistema – e le saldissime rivali del tg2 quando sono in forma e il direttore si è un po’ distratto sul controllo “qualità”). Curioso come una telegiornalista così severa e minimal - da giro di perle e nulla più- provenga da network giovanilistico-musicali. La scenografia dello studio è sempre stata molto coerente con lo stile giornalistico del tg, con la sola aggiunta relativamente recente della scrivania del conduttore dotata di doppio 7 del logo dl network incrociato, leggermente stonato se inquadrato dall’alto, soprattutto, come avviene per qualche secondo all’inizio delle trasmissioni.

Sobri font stile Apple per i titoli delle principali notizie si alternano in sovrimpressione per tutta la durata del tg. Ogni tanto qualche dubbio che qualcosa si possa concedere alla tendenza Brachino, anche a queste latitudini di austerity, lo danno servizi come quello di oggi sul caro frappe, nell’edizione di mezzogiorno. Ma nessuno è perfetto e, del resto, perché rischiare di non far sapere come si possa fare correttamente informazione in tv – e su tutto il resto della proposta - anche a chi non può fare a meno di servizi come quello, per non cambiare subito canale, e rintanarsi nelle calde braccia di una nonna che ha perso un gatto per la terza volta in dieci giorni, su Studio Aperto?

Sposini, si riparte da Telenorba

(in edicola il 1° febbraio 2008)

Lamberto Sposini, prima e principale vittima della strada della nuova Mediaset dell’infotainment integralista, ha deciso di ripartire da uno dei più notevoli canali privati locali del Sud, e anche del resto del Paese, a ben vedere: su Telenorba, con il talk di approfondimento Versus. Storica rete pugliese fondata da un ingegnere di Conversano sulle ceneri di una tenuta agricola di famiglia, nel 1976, Telenorba è amata da tutto il tacco d’Italia non solo perché officiò brillantemente il culto di Colpo Grosso, per i locali a corto di Oden Tv e di idee più brillanti per trascorrere i sabati sera degli anni Ottanta. Oltreché a lanciare su tutta la penisola il talento inequivocabile di Emilio Solfrizzi e di Antonio Stornaiolo.

È un network radicatissimo, con redazioni ormai giovani e vivaci ovunque, sul territorio che serve: il Molise, la Basilicata, oltre alla Puglia e alla Calabria Jonica. Sposini ha confezionato un talk schietto e onesto, ma anche relativamente raffinato per scenografia di studio e livello dei servizi esterni. Dotato insomma di scarpe grosse (popolo intervistato, mai edulcorato né troppo sceneggiato) e cervello fino (opinionista ospitato, spesso aumentato nella credibilità - soprattutto se non “locale” - per il fatto stesso di partecipare a una trasmissione di questo tipo). Rocco Casalino, che raccoglie testimonianze di vita vissuta risulta, come ai tempi del primo Grande Fratello, cui partecipò, o non classificabile o poco pervenuto. Tutto, insomma, dagli studi di Lamberto, grida vendetta, sincerità e non solo “Non è la Rai”, ma anche: “Non è manco Mediaset”.

Puntata genuina fra le genuine quella di questo mercoledì, sull’aumento del costo della vita, che sa rivolgersi come poche altre al pubblico nazionale, senza perdere in metafore agricole tipiche delle coltivazioni pugliesi da parte degli ospiti più in forma.
Su tutti, brilla mr. Prezzi, il Dottor Antonio Lirosi, il garante governativo dei prezzi. Bellissimo come anche nel titolone sullo schermo compaia il titolo di dottore per Lirosi, uno di quei provincialismi benigni che in un istante restituiscono dignità a interi ordinamenti accademici. Qualche gaffe psico-attitudinale di Sposini sui nuovi poveri non fa calare di troppo il livello della puntata: “non solo barboni, ma gente piena di dignità”.

L’intervista di Carlo Melina all’imprenditore della pasta marchigiano che ha cercato di vivere con lo stipendio dei suoi dipendenti vale tanto oro quanto dura: priva di doppi fondi ma ricca di livelli di lettura. Un imprenditore messo bene, lombardo e a ridotto impatto ambientale, con parlantina da parente di concorrente di reality, spiega in studio la ricetta per la salvezza sulla terra, poco prima, senza che per un attimo Lamberto lo prenda né troppo sul serio, né pensi del tutto ad altro. È questo il talk che vogliamo. Ottimo sempre il concetto della scenografia, in cui lo schermo che mostra i servizi cozza idealmente contro la realtà televisiva, cui è legato dalla V di Versus, tracciata dai designer dal grande monitor alle sedie degli ospiti.

venerdì 1 febbraio 2008

Cult Book, il culto del libro

(in edicola il 31 gennaio 2008)

Uno dei migliori programmi prodotti da Rai Educational è Cult Book, va in onda il martedì, perfino dopo il Tg3 Night News (quanto di meno cultistico il palinsesto dell’ora tarda proponga), e parla di libri talmente grandi, belli e letti nel passato, che risultano ormai di nicchia o, appunto, di culto, e si finisce per parlarne a quelle ore, ma con molto stile e che immagini sceltissime. E’ l’opposto formale e sostanziale della rubrica di Alain Elkann su la7, “Due minuti un libro”: non solo è piacevole da guardare, ma parla solo di libri degni di attenzione. Non basta il forte sconto della pena, in metraggio della puntata, da parte di Alain, a farci preferire il suo storico programma a quello inventato da Stas’ Gawronski, critico letterario e autore televisivo dal blog personale solidissimo.
Oltre alla già detta - e fondamentale - operazione culturale di considerare come delle piccole novità da scoprire, insieme, capolavori universali e reali romanzi recenti e già dimenticati, Cult Book si avvale della grande capacità dei suoi autori di rendere il più possibile multimediale non solo il libro in questione, ma anche e soprattutto le opinioni e le idee che su di esso hanno espresso artisti, registi e anche qualche vero critico nel corso della vita dell’opera, che spesso è immortale, e alle volte comincia qualche secolo fa.

Di Don Chisciotte, ad esempio, ci parla tanto Stas’ quando Orson Welles: l’uno, a leggerne una buona traduzione Einaudi, sulla sua poltrona di scena fra la scenografia minimal e i “pop-up” di carta virtuale che qua e là spuntano per lo studio, mentre la narrazione prosegue o si interrompe. Quelle pagine tridimensionali, così palesemente immaginarie, perché computerizzate, che ornano anche gran parte della sigla di Cult Book, altro non sono che il manifesto della trasmissione: visualizzare all’improvviso un personaggio dimenticato o troppo amato per volerlo ricordare molto spesso, che sbuca da un angolo apparentemente televisivo della vita, e che ci appare un attimo perfettamente reale, un altro del tutto letterario, cosa che senz’altro gli rende più facile il compito di non essere mai esistito. Welles, nel frattempo, in un’intervista dimenticata ai più, confessa che un Don Chisciotte è la battaglia d’Anghiari leonardesca della sua vita di regista grandissimo nelle idee e nel successo, una delle poche che portò avanti in lunghi anni di sperimentazioni di sola passione, senza sapere se il più grande rischio poetico sarebbe stato finirla o non finirla.

Le ricostruzioni di libro che ci fa Stas’ sono dunque tanti piccoli dvd di soli extra, che sono una grande sorpresa del lettore già avvezzo a considerare la base della propria vita letteraria Cervantes o Potocki, per averli ritrovati in tv e così bene in arnese, quanto dello spettatore televisivo abituale o perfino stanziale, che non aveva mai pensato che qualcosa di studiato male a scuola potesse ricordargli tanto i piaceri della vita che non ha mai avuto. Ci auguriamo che presto la trasmissione diventi cult almeno una piccola parte di quanto non siano già i temi che tratta, e che in questo le si utile anche l’intervento divino della rete, che ha trovato su Youtube un spazio più indulgente della notte, per quanto Educational, di Rai Tre.