venerdì 14 marzo 2008

La Bignardi e le strane interviste

(in edicola il 13 marzo 2008)

Più gente strana intervista e più la specialità di Daria Bignardi sembra essere diventata quella di intervistare solo gente strana, o di difficile comprensibilità o comprendonio. Di questi tempi, è ormai più semplice intervistare la figlia intelligente di Berlusconi che certi cantanti fuori dagli schemi. Così, la missione di Daria, per la puntata di venerdì scorso, è stata quella di intervistare Tricarico, il cantautore timido dall’infantilismo espressivo colto. L’autore del grande successo di “Io sono Francesco” (2000), che non disegna le tematiche sociali più invise a Gigi D’Alessio, e scomode perfino ai truccatori di Anna Tatangelo, è stato per lunghi anni completamente assente da qualunque tipo di salotto televisivo. Ora, che è reduce da un mini-tour televisivo che lo ha sentito finalmente parlare - è passata alla storia del Festival di Sanremo la sua parolaccia microfonatissima rivolta a Chiambretti dopo qualche sfottò di troppo rivolto al suo carattere chiuso; lo stesso non può dirsi per la sua comparsata a Quelli che il calcio – Tricarico ha deciso di concedersi anche un’autentica intervista barbarica, su la7.

Appena siede al noto tavolo trasparente, coi monitor imboscati, Daria è già lì ad incalzarlo con le domande più difficili possibili per un timido cronico alla Margherita Buy, solo di presenza leggermente meno bella. Lui è evidentemente, al di sopra di ogni dubbio, un vero irregolare. Non è uno che ci faccia in qualunque maniera, anche subdola o molto ben paludata. Non è a tutti gli effetti in alcun modo normale, e questo non può che fare piacere al pubblico. Forse non tanto a Daria stessa, che in qualche momento davvero non sa cosa rispondere alle sue domande. Invece, il candore quasi da Stefania Rocca prima dei primi nudi al cinema, mentre Tricarico risponde alle domande sul misto di caso e necessità per cui si è presentato a Sanremo, spiazza anche la scafatissima intervistatrice, che resta qualche secondo senza umettarsi le labbra. È davvero unico, Francesco, come riesca ad essere estremamente timido e completamente sincero al tempo stesso, due cose che dopo i primi intoppi, non vanno affatto d’accordo in televisione.

Quando rifiuta di bere la birra rituale, sostenendo pubblicamente che possa essere avvelenata, e nulla altro ci vieta di pensare che probabilmente lo pensi davvero, o che lo possa essere davvero, forse Tricarico comincia un po’ a dare sui nervi per bizzarrie e anticonformismo, ma qui è tutto a Daria, chapeau davvero, rimetterlo fuori dai binari dell’assenza di qualsiasi direzione. Ed ecco il colpo di genio: insistere, insistere e insistere ancora dopo le prime proposte di fargli raccontare la sua barzelletta preferita. E, senza che lui abbia bevuto ancora un solo sorso di birra, la barzelletta arriva. Non farebbe ridere neanche Berlusconi se l’avesse raccontata lui, ma Tricarico ha parlato per più di sessanta secondi, ha un bel sorriso, ed è un grande cantautore.

Vita rubata, speriamo in bene

(in edicola il 12 marzo 2008)

Il film per la tv “Vita rubata” – che racconta la morte e le indagini sulla morte di Graziella Campagna, vittima di mafia – è appena andato in onda che forse ha già cambiato – non certo per sempre: ma speriamo almeno in qualche mesata di coscienza – il modo in cui i dirigenti Rai si devono rapportare coi film per la tv di contenuto delicato e stile sincero. Questo, visto il modo in cui di solito sceneggiatori e registi sopra le righe vengono trattati dal network pubblico: ricacciati fra pagine e costrizioni rigide almeno come le sbarre della cella degli assassini di Graziella (metafora triste delle righe di cui sopra). La fiction che Graziano Diana (autore del soggetto, all’esordio come regista) firma per buoni e cattivi pagatori del canone è invece differente. Innanzitutto, perché un personaggio fondamentale della tristissima vicenda è stato coinvolto ampiamente ed efficacemente anche nella fiction, e in due modi. Pietro, fratello carabiniere di quella vittima - diciassettenne - di una malavita secolare, è sceneggiatore quanto Graziano del film, nella vita. Ma anche protagonista della vicenda, nella fiction da lui scritta, e interpretato da un Beppe Fiorello mai così convincente, neanche con Salvo D’Acquisto o nel ruolo di se stesso ai tempi del Karaoke del fratello.

Tale è la sua naturalezza, tale la sua spontaneità, come se, nella fattispecie, non avesse fatto non diciamo l’attore, ma proprio il carabiniere. Graziella viene uccisa neanche maggiorenne a Villafranca, in provincia di Messina, perché, lavorando in una piccola lavanderia in un piccolo paese pieno di grossi latitanti, rinviene nel modo meno opportuno possibile un documento chiave, un pezzo di verità dimenticato in un abito quasi certamente falso o odiosamente fuori moda, che un capo mafioso le aveva involontariamente consegnato, dopo aver sporcato dentro e fuori metafora l’abito stesso che lo conteneva. Larissa Volpentesta, nel ruolo di Graziella, nelle belle scene di vita quotidiana in qualche modo sapiente riconstruita, anche se si tratta solo di vent’anni fa, è l’altra formidabile sorpresa nel cast artistico. E’ una di quelle belle e brave dal talento spontaneo che farà tanta strada quanti pochi saranno i corsi di recitazione seguiti. (Da segnalare, fra la commozione generale, durante la scena del ritrovamento del corpo di Graziella – quella che più commuove Beppe Fiorello nelle interviste con Pippo Baudo – l’avvento finale del Corpo Forestale dello Stato in una fiction mainstream. E’ una macchina dei forestali che trova la ragazza. Come segnalammo qualche puntata fa della nostra rubrica, era l’ultimo in assoluto nel particolarissimo rating della presenza delle forze armate in televisione, superato perfino dalla Guardia Costiera d’assalto di Gente di mare). Indimenticabile il modo in cui una fiction riesce a farci soffermare su un dato che nella vita può abbondantemente sfuggire: il lavoro in lavanderia come segno di rinnovamento, di pulizia, invano ma non senza speranza.

Doctor House, la prima strana visita

(in edicola il 9 marzo 2008)

Da quando abbiamo scoperto - grazie a un semplice consulto su Internet Movie Database - che dai libri di P.G. Wodehouse fu realizzata una serie televisiva capolavoro, non c’è “Sherlock Holmes” della BBC o “Orgoglio e pregiudizio” del ‘95 che tengano: la serie inglese che dobbiamo invidiare con più convinzione e costanza è “Jeeves and Wooster”, diretta da Ferdinand Fairfax.
Questa è una serie di tale qualità nella tempistica comica, ma soprattutto nelle ambientazioni e nei costumi, che parrebbe molto, molto più antica di quello che è in realtà. Non diciamo vittoriana, ma perlomeno non la si farebbe risalire facilmente così inizio degli anni ’90. Una delle scene più divertenti della prima stagione è anche decisamente premonitrice di quello che sarebbe stato il ruolo della vita per il grande protagonista. Per quanto riguarda, dal canto suo, Stephen Fry, stavolta comprimario, per quanto immenso, ancora niente avrebbe potuto farci premonire la sua statura futura anche di scrittore e sceneggiatore (oltre che di geek di telefonio mobile nel suo blog, seguitissimo).

Bertie Wooster è un giovin signore alcolico e londinese, che vive in simbiosi col suo valletto Jeeves (tanto acuto, sapiente, tanto rapido nell’ideazione quanto nell’esecuzione dei suoi progetti, che diede il nome a un motore di ricerca degli albori del web: “Ask Jeeves”). Uno dei suoi giorni di massimo sforzo si trova a dover fare un’ambasciata per conto della sua zia tradizionalista e verbalmente violenta Agatha, presso una camerierina che il fratello della zia, un autentico Lord inglese, si trova a desiderare ardentemente di sposare. Lo scopo della visita è quella di offrire cento sterline alla giovane perché rinunci a sposare il gentiluomo, dato il dolore che quell’unione provocherebbe nella sorella di lui. Bertie viene però accolto dalla madre della camerierina, che lo scambia per un medico e gli propone di esaminare un suo ginocchio dolorante, nonché gli propone di dare un’occhiata anche al suo didietro stagionato. E’ troppo per Wooster, che con una scusa più o meno galante delle sue, riesce a fare sapere nel modo più comico ed elegante possibile che è molto, molto lontano dall’essere un nuovo medico in servizio.

Perché tutto questo ci ha fatto morire dal ridere, più ancora che per il solo fatto di essere estremamente esilarante di per sé? Perché nient’altri che Hugh Laurie, il Doctor House in persona, interpreta il giovane Wooster, ed effettua sul ginocchio della signora la sua prima diagnosi molto creativa della carriera da attore. Stracult è dire poco. Tutto questo solo per dire che è un peccato mortale che questa serie non sia stata mai trasmessa in Italia, per quanto eccentrica sia, e che un eventuale ritardo nel proporla oggi sarebbe certo una colpa meno veniale di non proporla mai.

Mai dire GF, ma non bastava il GF?

(in edicola l'8 marzo 2008)

Mai dire Grande Fratello, su Italia Uno, prosegue la sua lotta annuale contro la nostra capacità di assistere a uno degli sfaceli della nostra coscienza di telespettatori (il Grande Fratello, anche 8) in silenzio o dormendo. Più didattica di un programma di cucina o di pennarelli colorati, Mai dire GF agisce esattamente come uno di quegli insegnamenti catechistici che, da piccoli, ci allertavano su quanto sarebbe stato meglio dotare un popolo africano di una lenza invece che di molti pesci già pescati, magari Findus – perché così poi i popoli avrebbero pescato da soli. Proponendosi non solo come una buona parodia (sebbene, chiaramente, di tipo troppo “autorizzato” per risultare mai scomoda o meno che ulteriore pubblicità), ma come una vera e propria visione ragionata, guidata dalle tre voci fuori campo degli autori, basata sulle stesse immagini che tutti possiamo vedere, ma non commentare così intelligentemente, fino al loro avvento.

La Gialappa’s ha dalla sua tutto un patrimonio in battute che vorremmo fare anche noi, per esorcizzare quel senso di colpa nei confronti della televisione di qualità di cui ci hanno reso schiavi una fidanzata bella fuori, senza troppe pretese coi film d’autore, dentro; una famiglia intera troppo stanca per guardare anche solo Vespa; una stagione intera di fiction in fin dei conti sopravvalutate e poco aderenti alle rispettive fonti letterarie. E ci fornisce gli strumenti per farne altre, per essere Gialappa’s noi stessi. Noi condividiamo con gli autori del programma lo stesso materiale video che mandano in onda Sky o Mediaset, loro condividono con noi il loro meraviglioso senso dell’umorismo, così aggiornato di stagione in stagione e così superiore linguisticamente ai discorsi del concorrenti. Come ad esempio affettare accenti settentrionali anche se siamo napoletani, nel porgere certe battute ai nostri compagni di merende (è davvero una mania non trascurabile, queste dell’umorismo lombardo Gialappa’s applicato a tutti i campi del sapere video, che ha introdotto dalla Lucania al Salento espressioni come “zebedei” e “pantegana”, facendo ogni volta ridere come se fosse la prima volta).

Insomma, il rischio non è tanto che quest’anno il concorrente-cummenda Roberto possa fare, in diretta, a sua volta una controparodia della Gialappa’s stessa, in quanto milanese e spiritoso, ma che i nostri vicini di divano possano cominciare ad esibirsi da par loro come ulteriore sottofondo alle vicende della casa. L’unico campo in cui non possiamo nulla contro il talento dei testi dei tre è invece quello delle imitazioni. Quella del concorrente brasiliano che ha una moglie intera dentro la casa, ma la tratta come un’altra partecipante al gioco, di cui temere gli occhi dolci ed evitare le gelosia, è una delle migliori di questa tornata aurorale. Probabilmente non mancava un programma del genere, ma perché lasciarci col dubbio?

Californication da oggi su Jimmy

L’interessantissima Showtime, già produttrice di Dexter (lo show con l’ematologo violento e killer gentiluomo) sbarca in Italia con Californication, la serie umoristico-letteraria che ha affrancato David Duchovny dal ruolo di Fox Mulder in X-Files – cosa che a lui non era riuscito di fare neanche con una trafila di filmetti orrendi, e certo non la comparsata in Sex & The City, del resto. Questa volta l’attore, laureato a Princeton e a Yale, interpreta in ruolo di uno scrittore piuttosto in crisi di ispirazione, ma fortunatissimo in amore. Troppi romanzi non gli vanno come dovrebbero, di uno si decide di farne un film e decide di trasferirsi da New York in California, intraprendendo una nuova carriera parallela di sciupafemmine avvinazzato e spesso fumato. Da qui il titolo della serie, tratto a sua volta dall’album celeberrimo e omonimo dei Red Hot Chili Peppers, verosimile portmanteau fra lo stato della West Coast e la parola inglese che identifica l’atto preferito di un numero cospicuo delle sue abitanti, a quanto pare. A Los Angeles Hank Moody (il cognome letteralmente significa “umorale”) comincia a tenere un blog per una rivista alla moda (indimenticabile il momento in cui gli si propone il lavoro, atteggiando la bocca a conato di vomito mentre si pronuncia la parola “blog”) e a cercare di risolvere il suo rapporto altamente conflittuale con la moglie e la figlia andando di fiore in fiore, probabilmente con l’idea di rendersi conto a un certo punto della faccenda che non c’è niente di meglio del proprio alveare, ma con una certa maggiore cognizione di causa.
(in edicola il 6 marzo 2008)


Curatissima la sigla di apertura, un elemento che sta diventando sempre più un terreno di scontro fra i potenziali degli scrittori di serie americane, che agisce come manifesto poetico dei temi presenti e futuri. Il nostro uomo si muove per i quartieri di Los Inglese in macchina o a piedi, e continuamente il montaggio stacca in favore di vari oggetti volanti, più o meno identificati: un gabbiano, un aereo, l’immaginazione a corto di idee del nostro protagonista. Ma una ruota da Luna Park lo restituisce all’ambito relativismo con cui, non se lo dimentica, risolverà i problemi di moglie. Delicatissimo il finale della sigla in cui ai vari velivoli si aggiungono i fogli di un manoscritto mescolati dal vento, e sparsi per una via di quelle in cui Hank sparge tanta parte del suo talento. Lo stile irriverente e ironicamente scollacciato del prodotto, permettono a chi ne sta curando il lancio italiano di giocare coi nuovi strumenti del marketing in modo molto originale. Ad esempio, è notizia di questi giorni l’avvio della campagna pubblicitaria (del tipo “guerrilla”) nelle linee metropolitane di Roma e di Milano a base di reggiseni rosa fintamente abbandonati sui sedili, recanti l’etichetta “Californication”. Da noi la prima stagione della serie parte sul canale Jimmy del bouquet Sky da oggi, proprio mentre fervono i preparativi per le riprese della seconda stagione, prevista negli Stati Uniti per l’autunno.

mercoledì 5 marzo 2008

Nel tg2 nicchia over 60

(in edicola il 5 marzo 2008)

Senza l’apporto fondamentale del Tg2 Costume e società, come faremmo a sapere che il mondo sta cambiando, in generale; o che la Chiesa cattolica tiene all’ecocompatibilità, nel particolare? O che Sandra e Raimondo sono parte tanto del nostro costume quanto della nostra società? Martedì, effettivamente, è proprio la coppia decana della televisione autobiografica a essere la protagonista assoluta della puntata della rubrica del Tg2 decana della carenza di ispirazione per contenuti. Si riflette, dal salotto di casa loro, su come parte di quello che vediamo oggi in televisione sia dovuto alla mancata osservanza dei loro insegnamenti. Non è una facezia o una boutade, per l’autore del servizio, e la dimostrazione della sua tesi avviene con alcuni filmati di repertorio sapientemente scelti, tratti perlopiù da verità con Sandra che gioca con un palloncino o Raimondo che parla romanaccio. Cose che se avvenissero ai tempi nostri, in un sol colpo, abbatterebbero con sicurezza da taglialegna le fondamenta degli odiati reality, del faticoso infotaiment, quanto del tremendo cultural gossip, che è trasversale alle due categorie sopracitate. Almeno secondo il nostro giovane ed elegante intervistatore. Che sa sfottere magistralmente Raimondo, chiedendogli se fa sport, con la piccola ma comunque spassosa gaffe di non saperlo quasi bloccato per via di un incidente alle costole che quasi gli impedisce di respirare.

Non che i coniugi Vianello non meritino spazio in televisione, onorificenze o commemorazioni, come la bella e discreta apparizione sul palco di Sanremo non ha attestato. Sono stati un vero e proprio corso di telegenia morale in un periodo in cui si avrebbe bisogno di modelli come del miele dietetico sulle fette biscottate dei baretti Rai. Il punto è che forse questo servizio monografico era troppo poco ispirato perfino per un duo che per anni ha fatto ridere – e anche relativamente a crepapelle – giovani dai 50 anni in su grazie alla sola gag dei piedi che scalciano sotto le lenzuola. Ci sono servizi infinitamente meno accattivanti, d’accordo, come quelli sul caro prezzi dei gelati ad esempio, per non dimenticare la saga dei nani da giardino preziosi che finalmente approdano sulle terrazze del centro. Ma il gusto puffo della gelateria Due Palme di via della Maddalena a Roma non può fingersi perplesso delle stesse domande che gli si rivolgano, come invece fa diligentemente l’esperto Raimondo, che riesce a rendere del resto tutta l’intervista guardabile sparlando in continuazione della moglie, che gli siede affianco. Ci troviamo davanti, sempre più, a una versione per anziani di Studio Aperto in cui venga proposto, in luogo di “ciò che altrove non farebbe mai notizia per chi non fosse un uomo fra i 18 e i 40 etero e un po’ becero” (Studio Aperto), si propone invece “ciò che altrove non farebbe mai notizia per chi non fosse ”un uomo o una donna fra i 60 e i 99 etero e non più becero“. Insomma, l’altra nicchia fondamentale della rivoluzione contenutistica della nostra informazione televisiva.

L’ultima domenica in molto particolare

(in edicola il 4 marzo 2008)

La prima Domenica In dopo la fine del Festival di Sanremo – anche se questo è stato poco visto o, peggio, qualitativamente superiore alla norma, come sostiene Baudo per questa edizione – viene dedicata, per tradizione, a quella sorta di dopo-dopofestival che un tempo era una buona occasione di spettacolo televisivo, e negli ultimi anni aveva cominciato a somigliare all’ennesima puntata dell’Italia sul Due o di Cocuzza dedicata ai postumi di un reality qualunque, e neanche troppo musicarello. Quelle puntate erano delle buone occasioni perché i cantanti si esponevano più che in un dopofestival in senso stretto, con maggiore rilassatezza (in altri tempi si lottava seriamente per vincere e l’ultima sera, dopo le ultime emozioni, il dopo-festival non c’era e non c’è). E perché davvero si lanciavano o si archiviavano gli artisti destinati o no a restare sul mercato musicale. Molti veri talenti, che fossero solo musicali o pure televisivi o, in generale, comunicativi, sono stai lanciati infatti da quella prima puntata di Domenica In cui parteciparono, e non dal loro primo Festival di Sanremo in quanto tale. Quest’anno, invece, visto tutto quanto si è potuto dire, non solo sulla stampa, ma anche sul palco stesso dell’Ariston, i toni della trasmissione domenicale che, per una volta, conduce Baudo, sono insolitamente signorili, retrò.

Come sospesi in un tempo in cui Amedeo Minchi poteva davvero esprimere un parere sul significato della sua canzone, e tutti gli altri (giornalisti, altri cantanti, perfino una blogger di Blogosfere: Alessandra Carnevali) a commentare, e il tutto con una tale intensità di contenuti e di forme, che quando arriva la pubblicità non si ha la frenesia di cambiare canale per veder il prima possibile com’è è vestita Simona Ventura, ma ci si riposa quasi la testa, e si pensa a un testo o a una melodia come non era capitato neanche sabato. Pippo sfruculia un diciassettenne che era in gara, sulle trentenni e sui sentimenti che esse possono provare per lui, con la timidezza e il garbo di una trasmissione di quando le trentenni avevano l’età del giovane Ganimede in questione. Non si riesce a stabilire con certezza assoluta a cosa sia dovuta tanta qualità.

Pare quasi di trovarsi davanti a uno di quei colpi di scena da romanzo più o meno epico in cui un cattivo della prima ora (uno, d’accordo, non proprio cattivissimo, ma comunque uno che ci teneva e eccome ai suoi piccoli privilegi, alle profferte che qualche popolo gli corrispondeva in termini di attenzione e ascolto), improvvisamente annuncia, con il proprio cambio di direzione, con la propria nuova bontà, anche la fine del romanzo. Forse Pippo sa di dover in qualche modo pagare per il crollo degli ascolti sanremesi, senza che nessuno - e non solo lui - abbia fatto qualcosa di molto innovativo, magari anche last-minute, per rinnovare la formula dello show. E forse pure, relativamente anziano com’è (anche se Bongiorno dimostra che non lo è), relativamente straricco com’è, avrà pensato in cuor suo di darsi alla novità per lo spazio di un’ultima domenica molto particolare, e finalmente “in”, che pure segue a una settimana molto particolare per la storia della sua conduzione, essendo forse la prima grande occasione in cui ha potuto fare lo spiritoso senza apparire troppo giovanilista o troppo vecchio.

Amici, la televisione che si autopeggiora

(in edicola il 1° marzo 2008)

Anche per raccontare lo stato attuale di Uomini e donne, uno dei programmi simbolo più evidente della decadenza della televisione italiana, scegliamo l’approccio, per così dire, impressionistico (come facemmo col Grande Fratello), rifiutando, per questa volta, il corteggiare questa o quella teoria – che sia dell’eterno rimando, post Marta Flavi, o del solito addormentamento pre-pomeriggio. In un collegamento esterno, un corteggiatore palestrato del tipo con pettorali molto alti (esofagei) incontra la sua bella corteggiata in una sorta di sacro speco, una grotta, di memoria sanfrascescana ma con incensini. Lui, non ricordando il numero di fratelli e sorelle di lei, non ottiene, al termine di una discussione interminabile, che un bacio su una guancia, ma recupera ampiamente consegnandole un cuscino molto piccolo e quasi certamente scomodo e una coperta di pile dell’Ikea con il suo profumo. Ci si strofina. Due corteggiatori rivali, che normalmente si abbracciano in camerino, si accusano di essere l’uno un puffo bello (o bello che non balla) e l’altro pupazzo di neve o maleducato.

Al nuovo insulto di “esternista” – riferito dal pupazzo di neve al puffo, per via della sua migliore riuscita in testa a testa con la loro amata, rispetto alla dialettica col pubblico e gli altri rivali in studio, Maria De Filippi interviene e chiede all’amata se non avrebbe preferito dai due una classica scena di gelosia. Lei risponde di sì. In tutto questo Gianni Sperti, il famoso ex-marito di Paola Barale, continua ad esserci, seduto mollemente, ogni tanto un sorriso di circostanza, ma fuori, Ormai ha quasi preso l’atteggiamento con cui uno studente di liceo né particolarmente bravo a scuola, né particolarmente dialettico o “contro”, siede ad un’assemblea d’Istituto che sì, gli offre su un piattino di plastica la possibilità di non fare lezione, ma a conti fatti in questo momento gli impedisce comunque di dormirsela della grossa o di giocare a poker elettronico. La pubblicità, coi suoi toni e ritmi innaturali, i suoi colori perfetti, paradossalmente ha il compito di restituirci alla realtà, fra una di queste scene e un’altra.

Non c’è un solo altro show italiano che sia così presente nella nostra mente quando pensiamo all’eterno dilemma se sia nata prima Maria De Filippi o la studentessa fuori sede che la guarda. Vale a dire: se la televisione peggiora tanto, è colpa della richiesta di peggioramento da parte del pubblico, o dell’offerta peggiorata per moti suoi interni e/o infernali. Noi non avremmo troppi dubbi, e anche l’anagrafe, del resto, sarebbe dalla nostra parte. Il dilemma è stato rispolverato da Pippo e Luzzato Fegiz nella conferenza stampa sanremese di mercoledì. Quando, entrambi con una grossa parte di ragione, probabilmente, ma certo non tutta, si chiesero se l’insuccesso di Sanremo sia dovuto, quest’anno, più all’innalzamento della qualità della conduzione o al cambiamento quanto mani epocale dei gusti del pubblico da casa (quello in teatro, si sa, è lo stesso da 30 anni almeno).

I dubbi di Guaccero e Osvart

(in edicola il 28 febbraio 2008)

Le altre due protagoniste di questa edizione 2008 del festival di Sanremo, dopo il fantasma della musica leggera e Toto Cutugno in carne ed ossa, sono le due vallette Bianca Guaccero (1981, bitontina, che balla, canta, parla in inglese) e Andrea Osvart (1979, ungherese, che stona, litiga e ha studiato). Si è scelto, per le prime mandate, di non farle comparire insieme, ma di dedicare una puntata a ciascuna delle due, per evitare in fondo l’effetto veline, bruna e bionda come sono anche questa volta. Come il giorno e la notte, che non si incontrano mai, anche loro due simboleggiano due aspetti fondamentali della vita, anche se in particolare del vallettismo e della co-conduzione in generale: una, l’essere bella e brava, pur non volendo altro che essere solo bella, e risparmiarsi tutti possibili i conflitti con le solo brave (spesso anche solo quarantenni); l’altra, l’essere solo bella, e fare di tutto per sembrare anche brava.

Bianca canta infinitamente meglio in playback, mentre danza, piuttosto che dal vivo al piano di Sergio Cammariere. Andrea invece stecca felice, coraggiosa, quasi impertinente nel suo modo di volerlo fare diretta da Peppe Vessicchio, eppure senza seguire con la sguardo neanche per un instante in famoso ciuffo bianco che gli fa da bacchetta. Anche alla luce delle loro rispettive performance coi tre giornalisti-vecchioni del dopofestival (che, alla seconda puntata, si rivelano ormai presenza fissa), Bianca è infinitamente più trattabile e conversativa di una Osvart che, appena può, si risente e ammutolisce, come se non sapesse che questo è il livello cui una mezza dozzina di anni di dopo-reality hanno ridotto, non diciamo la televisione italiana, ma addirittura le menti di giornalisti anziani della carta stampata.

Osvart rifiuta il salame che la Agosti le offre, non si sa se perché ha studiato e dunque conosce la possibilità di metafore sconvenienti; Guaccero invece non si pone il problema neanche per il tempo di un sorriso in più (anche se in sfavore di camera) e fa il verso di mangiare, con tanto di pane di accompagnamento, il detto insaccato. Non si capisce perché Lucilla le dica che non avrebbe potuto rifiutare in quanto pugliese, come se fosse una tipica espressione della pugliesità non rifiutare i salami offerti nei dopofestival o comunque nei dopolavoro. Successivamente, Guaccero finge molto meglio dell’altra di mangiare ed è per questo che le perdoniamo la pizzica tarantata ballata durante la trasmissione: perlopiù fingendo di essere un ragno, e muovendo per il palco a quattro zampette e la schiena inarcata (a dorso di ragno, dobbiamo supporre).

Nella seconda puntata, come si sarà forse notato, uno dei vecchioni è una donna, eppure si complimenta con ancora più fervore dei colleghi del tutto uomini con Bianca. Non avevamo bisogno di molto altro per decretare il suo trionfo sull’algida Andrea. Eppure, il modo in cui la pugliese ammette di aver fatto solo uno Zecchino d’Oro regionale, da bimba, e non nazionale come buttà lì la Agosti; le sue risposte alle domande più insidiose dei vecchioni su quanti anni abbia; e, soprattutto, la versione con fisico aggiornato della stessa canzone che davvero portò allo Zecchino (Cane e Gatto, simbolo del rapporto coi vecchioni, involontariamente), ci tolgono ogni ultimo barlume di possibile dubbio.

Dopofestival, il vero Festival

(in edicola il 27 febbraio 2008)

Questo Sanremo 2008 è stato talmente (e a ragione) trasformato in un dopofestival nel festival, grazie a Piero Chiambretti, ai suoi gruppi d’ascolto, alla stessa inverosimiglianza di una giuria giovani presieduta da Federico Moccia, che il dopofestival in sé, quello condotto da Lucilla Agosti, è divenuto il vero festival, e con un discreto successo. Dopofestival nel festival perché tutto si ripete da troppo e troppo spesso, perché non lo si debba considerare, tout-court un post-festival, nel senso da categorizzazione storico-artistica, come quando si smette di credere alla modernità o a un credo religioso. Solo un’autoironia decadente, terminale, appunto quasi da Satyricon, permette a Pippo Baudo e a Sanremo di esistere ancora, attaccati come sono alla stessa spina dei pochi spettatori anziani e non dormienti che possano ridere davanti a Lenny Kravitz che canta Donna Rosa, dacché sono abbastanza svegli da sapere quanto è famoso Kravitz, e abbastanza avanti con gli anni da conoscere l’origine di quel motivetto tormentante.
Un solo merito, doppio: Chiambretti e Baudo agiscono evidentemente l’uno come il Sancho Panza dell’altro, avendo l’accortezza, di volta in volta, di riportare a terra il sogno, la visione che l’altro sta avendo in continuazione, che sarebbe un festival di vent’anni fa per Baudo, e una puntatona di Chiambretti c’è per Piero.

Eppure, per quanto a un orario smisurato, un certo punto, il festival finisce, e Lucilla parte con la sua idea di programma musicale fatto finalmente con grandi mezzi, grande pubblico e ancora più entusiasmo dei tempi di All Music, e balza subito all’occhio che non è necessariamente più entusiasta solo per i nuovi mezzi e il nuovo pubblico, ma perché finalmente si realizza come conduttrice di nicchia anche fuori dalla nicchia. Se non bastasse il suo modo di dare il giusto nome alle persone e ai concetti (anche, ovviamente, musicali) - oltre a un certo innegabile fascino di ragazza acqua e sapone che non studia troppo, ma osserva moltissimo – le verrebbe comunque in soccorso il co-conduttore Elio delle storie tese, che è l’altro vero motivo per cui guardare la programmazione di Rai Uno, almeno questa settimana, fino a orari più che marzulliani. Vero e proprio show indipendente, e non o conferenza stampa a telecamere accese, né il meglio di, a puntata finita da dieci minuti (come del resto si è spesso usato) la formula di Lucilla, Elio e Lucia Ocone è di mini-varietà con tanto di imitatori (grandissima Lucia Ocone nel ruolo di Mina) e di propria musica e ospiti.

I tromboni di critici, non solo musicali, del resto, non possono mancare in studio, come per un riflesso condizionato, per quanto dribblati più o meno agilmente dalla stessa Andrea Osvart, che deve purtroppo rispondere ad accuse di uomini sopra i sessanta sul fatto che sia troppo visibile il fatto che, rispetto alle vallette del passato, abbia studiato. Tutto ciò, sempre unito alla competenza musicale di tutti, appena appena malcelata, per gli sfottò ai cantanti in gara con più cognizione di causa della storia dei dopofestival, renderebbe il programma imbattibile per qualunque concorrenza, se solo se ce fosse una, a quell’ora. Ma i conduttori e i comprimari sono impegnati come se fosse l’occasione della loro vita, cosa che certo non è per Elio, ma forse per la Agosti sì, con tutti i nostri auguri.