venerdì 7 dicembre 2007

Come invecchiano bene le Desperate Housewives



(in edicola il 6 dicembre 2007, video e commenti qui)

Solo il fatto che la sigla di testa – che forse, è il capolavoro del suo genere - non sia cambiata di un fotogramma, è un motivo già di per sé abbastanza valido per guardare anche la terza stagione di Desperate Housewives, che è ripresa da martedì, in seconda serata, su Rai Due. Per tacere del fatto che le casalinghe in questione sono sì disperate, ma nel loro accasciamento morale riescono pur sempre ad essere uno dei seriali televisivi che invecchia meglio al mondo, dopo che anche Heroes, in seconda battuta, ci ha abbandonato qualitativamente (ma speriamo nella sua, di terza stagione). Ogni serie come si deve ha nella sua “opening sequence” un manifesto che contiene spesso in nuce la maggior parte dei temi che tratterà. Come un prologo letterario, solo che, invece di essere scorto solo una volta, all’inizio dell’esperienza della lettura, nei serial viene ripetuto ad ogni visione. Fino a che, nella sua apparentemente immobile ripetizione all’inizio di ogni puntata, in realtà quel minuto e mezzo si modula e modifica di volta in volta secondo quello che dalla puntata appena cominciata ci aspettiamo, e quello che di tutte le altre ricordiamo - o nel caso di serial crudi come Dexter, vorremmo dimenticare.

Proprio Dexter (in onda il giovedì sera su Fox Crime) ha uno dei pochi opening paragonabili per qualità e intensità a quello delle casalinghe. Dexter Morgan, il protagonista, passa metà della sua vita a cacciare assassini per vie legali, essendo perito ematologo per la squadra omicidi della Polizia di Miami. L’altra metà, a cacciare quelli che la stessa polizia non può o non vuole cacciare, con metodi del tutto illegali e spirito d’iniziativa da perfetto serial killer, a sua volta. Ferma restando la sua innata passione per il sangue. Allora, i primi, geniali fotogrammi della sigla, a spiegarlo quasi in tutto: è a letto, dorme ancora, e una zanzara si posa sul suo braccio. Si sveglia, e ha qualche istante per fissare, come ammirato, come un collega che riconosca del talento naturale in qualcuno che, inizialmente aveva sottovalutato, per poi schiacciarla inesorabilmente con la mano. Il fatto che il nostro antieroe si gusti poi una bistecca semicruda di prima mattina, godendone come un Hannibal Lecter di bovini, è forse un’allusione meno sottile alla sua essenza, ma rende comunque perfettamente l’idea.

Il “manifesto” di Desperate Housewives è invece del tutto poetico. Colto, ma spesso comicamente, è una sequenza di parodie di fondamentali opere della storia dell’arte, che rappresentano la donna in momenti particolarmente convenzionali e codificati: Eva, Nefertari, una casalinga da manuale che maneggia la lattina di zuppa Campbell’s di Andy Warhol. Tutte sanno stupire, stravolgendo quelle convenzioni (proprio come del resto fanno le protagoniste del serial), e mostrarci tanto ciò che di violento ci può essere in qualcosa di apparentemente fragile, quanto di dolce e materno in qualcosa che pensavamo mascolinizzato per sempre. Così, Eva ha un bel porgere il frutto sbagliato ad Adamo: un pomo OGM di proporzioni colossali sta per cadere in testa al suo coniuge: spada di Damocle che ci invita tutti a toglierci le travi dagli occhi, senza cercare pagliuzze dietro le lenti a contatto di tante mogli immeritate. Oppure, una delle tante donne-fumetto piangenti e sofferenti di Roy Liechtenstein, qualche fotogramma più avanti, si prende la vendetta che in moltissime aspettavano: ci mostra che nela vignetta successiva, che Roy non dipinse, c’è un cazzotto molto ben assestato, e da lei verso di lui.

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