martedì 4 dicembre 2007

Miracolo a Rai Uno: per una sera è tornato il Roberto di un tempo



(in edicola l'1 dicembre 2007, anticipazione e note qui)

Quando Roberto Benigni è in televisione, ed è particolarmente in serata (come è stato giovedì sera su Rai Uno, nonostante l’avvio comodissimo contro Calderoli: come sparare su una crocerossina morta), può riuscirgli perfino di non farci rimpiangere ancora una volta il primo Benigni, cui, purtroppo o per fortuna, non ci ha mai abituato. A tratti, può essere capace persino di farci dimenticare i suoi ultimi due film, o di ricordarci com’era un tempo, senza cercare di essere come era, come parlava, come stava sulla scena, alle prime apparizioni televisive; e godere delle differenze e delle maturazioni, rispetto ad allora, come si dovrebbe fare con ogni artista ancora in vita che non sia incappato in due degli errori principali che fanno anche i peggiori geni o i massimi guitti: imborghesirsi, o ripetersi all’infinito. Cosa che a Benigni è successa troppe volte perché non la smettesse, a un certo punto.

Effettivamente, la differenza con le comparsate a Sanremo o da Fabio Fazio, la fanno dei piccoli dettagli, ma fondamentali. Ad esempio, dedicarsi al pubblico senza un conduttore di cui palpeggiare o comunque minacciare le parti basse - cosa che poteva avere una ragione stilistica vent’anni fa – e non perché quegli anni fossero particolarmente illuminati dal punto di vista della possibilità di maneggiare parti basse, ma perché Benigni ne aveva una trentina, di anni, allora. Oppure stupirci di come un comico nato possa essere in una sola sera e in una sola persona l’incarnazione di almeno due dei più celebri epurati Rai degli ultimi tempi: per non scomodare Enzo Biagi, almeno di Santoro e Luttazzi. Vale a dire farci ridere dell’attualità più flagrante, prendendola con filosofia, senza smettere di farci riflettere sulla comicità che è nell’attualità stessa, anche se la guardiamo con serietà. È dunque un opinionista e un satiro in uno, come forse riesce solo a pochi vignettisti italiani: Vincino, Vauro, Altan.

Giovedì Benigni non ha fatto ridere, insomma, perché parla un bel toscano pieno di parolacce, o perché sta sulla scena come una marionetta deformata dagli anni di utilizzo. Quando ha fatto ridere con la faccia, lo ha fatto perché lo doveva all’unione fra un testo ben scritto e pensato e un’espressione di esso misurata nel suo essere, comunque, fuori misura. Come un attore che non deve necessariamente farci sapere tutto quello che sa fare in una sola serata ma, concentrandosi su due o tre elementi (politica, politica, Dante) ci comunica tanto anche di quello che non sa, ma che riesce a farci immaginare. Quando ha fatto ridere con la testa, invece, lo ha fatto grazie alla stessa gravissima situazione in cui ci troviamo, socialmente e politicamente, come può fare solo un satiro riuscito: non piangendosi o piangendoci addosso (alla Beppe Grillo, per fare solo un nome e un cognome) ma deformando la realtà sotto il peso dell’opinione che se ne è fatta e del suo espressionismo recitativo, rendendo irresistibile anche un accento romanaccio imitato malissimo, dando vita sulla scena alle tante intercettazioni di questi ultimi mesi e giorni, in pochi minuti, come intere saghe di Porta a porta non erano riuscite a fare (forse anche perché le ultimissime raccontano qualcosa anche di Bruno Vespa). Eppure, abbiamo tanto sofferto per quel Pinocchio tremendo, al cinema, che per le prossime puntate, a dicembre, ci aspettiamo da Benigni ancora di più.

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