giovedì 20 dicembre 2007

Il destino di un principe, una fiction di fascino



(in edicola il 19 dicembre 2007)

Il destino di un principe è un film per la tv di raro fascino e share, almeno in Austria (50%, vi compare Sissi, del resto), l’altra terra coproduttrice di questa fiction diversa, meno addentro lo spirito facilone, melenso o provinciale imposto dai massimi successi del genere (uno su tutti: l’ultimo Guerra e Pace), e più vicina alle piccole invenzioni inattese, ai dettagli di classe registica di una produzione come i recenti Vicerè di Roberto Faenza, pur naturalmente senza avvicinarvisi troppo. Data anche la ferma mano austriaca dietro il tutto, naturalmente. Come molti avranno finto di ricordare perfettamente, dando uno sguardo alla trama sui giornali, la storia è di quelle che cambiano il corso di quella d’Europa, e dunque in parte del mondo: la nascita dell’amore – e il suo tragico epilogo suicida – fra il principe ereditario al trono d’Austria Rodolfo d’Asburgo (figlio di Francesco Giuseppe e di Elisabetta detta Sissi) e la sua amante baronessa Mary Vétsera.

Rudolf è interpretato dalla star della televisione tedesca Max von Thun, il vero Alessandro Preziosi morale d’oltralpe; la giovane Mary da Vittoria Puccini, l’unica attrice così amata dal pubblico che ormai anche i blogger più cruenti amano definire “bella e brava”, nei post che un tempo avrebbero dedicato ai difetti di una nuova versione di Windows Vista. Se ci sono al mondo dei cinefili spinti di generi come il film storico di ambientazione asburgica, questa produzione farà leccare loro i baffi impomatati alla Franz Josef. Un solo motivo cultuale su tutti: non è nient’altri che Omar Sharif – che interpretò Rudolf in persona nell’amatissimo Mayerling di Terence Young (con Catherine Deneuve nella parte della Vétsera, e in quella di oggetto del desiderio di più di un soldato-comparsa) – a recitare nel ruolo del pittore Hans Canon. Sono cose che, per un pubblico attento, che magari participa ogni anno alle parate dei sosia degli imperatori austro-ungarici a Bad Ischl (Austria), può fare la differenza, e rendere plebiscitario un risultato d’ascolto molto più di un semplice bel moto di cinepresa o, rarità ancora più preziosa, di sceneggiatura.

Per noialtri, invece, contano soprattutto scene come quella d’apertura (subito dopo l’antefatto che introduce un lungo flash-back). In cui il pittore Hans, nel ritrarre Rudolf e nell’impersonare una delicata metafora del regista e dell’operazione intera di fiction biografica cui partecipa, raccomanda, in un gioco di rappresentazioni concentriche che sarebbe la gioia di una tesina di semiologia a Scienze delle Comunicazioni, al modello di “non muoversi”, perché devono essere entrambi concentrati. E’ chiaro che ne La figlia di Elisa tutto questo non potrebbe avvenire. Il modo in cui una dissolvenza ben piazzata passa dalla mano di Sharif che dipinge a quella di Max che palpeggia un compagna di stanza, fingendo id tracciare una mappa geografica sulla sua schiena, lascia intendere che anche le donne che amiamo, in fin dei conti, un po’ le idealizziamo, le modifichiamo ai nostri occhi, come se in parte le dipingessimo con infiniti pentimenti e correzioni. Neanche questo troverebbe posto nella fiction media italiana. Andiamo bene, se abbiamo bisogno di un apporto dalla tv popolare austriaca per ricordarci dove sta di casa la sensualità di un pellicola.

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