martedì 23 ottobre 2007

Brutto, insipido e codardo Guerra e pace de noantri

(in edicola il 23 ottobre 2007)

Come ama dire Ettore Bernabei di tutte le fiction Rai brutte che richiedono più di un paio di mesi per essere realizzate, Guerra e pace non è una fiction, è un film per la tv. Un film per la tv insipido e codardo come pochissimi altri, ma che gode di un respiro tanto internazionale e di una profondità di ambientazione che – sebbene realmente sia stato girato a San Pietroburgo – la sensazione è che potrebbe essere stato collocato più o meno ovunque, da qualche sceneggiatore (ancora) postmoderno: dalla provincia di Terni, un giorno in cui le acciaierie fossero chiuse per miracolo, a uno qualunque degli Stati Uniti, tranne la California, perché lì ci sono molte più russe. L’ultima cosa che vogliamo accada a questo ultimo ritrovato del bignami televisivo (su Rai Uno in quattro puntate, a partire da domenica scorsa) è che diventi presto un altro di quei vestiti nuovi dell’imperatore. Una di quelle cose sì palesemente inconsistenti, quando non del tutto inesistenti, ma di cui non si può parlare male in pubblico, in primo luogo perché si è speso troppo per realizzarle, e in secondo luogo perché l’abbiamo speso in parte pure noi, proprio come i sudditi di quel sovrano nella fiaba.

Per questo ne parliamo male subito (fin troppo male, forse: un po’ per compensare l’insania di poi), finché certe ferite sono ancora aperte, nella speranza che qualcuno possa credere alle nostre parole almeno oggi, prima di aver visto, ad esempio, le scenografie o i costumi della terza puntata, o essersi persuaso di quanto possa stare bene Alessio Boni morente sul campo di Austerlitz.
Dopo la Baronessa di Carini, un’altra tremenda fiction, dunque, ci fa riflettere su quanto realmente i nostri produttori televisivi debbano sottovalutare non solo gli attori e i registi che tengono in vita, ma anche quel pubblico che – nonostante tutto – sostenta loro. Anche Laa-Laa, la femmina dei Teletubbies, in particolare quando smette i panni di maschiaccia, è una Natasha più conflittuale della pur brava e falsa androgina Clémence Poésy, che la interpreta in questo classico “for dummies”. È evidente che il consiglio ultimo di chi ha voluto – certo: fortemente, come si dice in questi casi – questo lavoro, al regista Robert Dornhelm (quello della grande mini serie su Anne Frank), deve essere stato qualcosa di non lontano da: “devo capirlo anche io”.

A palazzo Bezukhov perfino l’ottimo Toni Bertorelli, pur imparruccato e vestito alla perfezione, sembra perfettamente a casa sua, e cioè a molti chilometri dalla Russia. Disastroso più o meno ovunque Alessio Boni (Andrej), ma in particolar modo nella scena della morte per parto di sua moglie Lisa, quando, dopo un’ora e più di dialoghi facilitati al punto dall’esprimersi a gesti, e minimalismo anche delle espressioni, si lancia in un urlo spaventoso da coniuge mucciniano in difficoltà, soffocato a stento dal sempre perfido Malcolm McDowell, che tanto quella morte si era augurato. Risulta in parte praticamente solo l’interprete tedesco di Pierre Bezukhov: sarà un piacere vedere la sua evoluzione da macchietta goffissima, sempre nascosto da troppi strati di capi d’abbigliamento, al personaggio multilivello che ne verrà fuori.

Solo degli italiani dei nostri tempi – con in mano tanto materiale umano, tecnico (regista di prim’ordine, musiche di candidato all’Oscar, e la semidivina Brenda Blethyn nel ruolo dell’Achrosímowa) e, nel caso di Violante Placido e Ana Caterina Morariu, ci verrebbe da dire quasi: spirituale – avrebbero potuto tirare fuori una noia e una pochezza così feroci da uno dei massimi soggetti pronti per il cinema di tutti i tempi. Sarebbe il caso di spiegare a qualche dirigente televisivo che realmente popolare non significa quasi mai banale, e che la semplicità è d’oro solo se fa rima con una certa sincerità.

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