mercoledì 17 ottobre 2007

A Carini va in scena lo Stanislavskij invertito

(in edicola il 17 ottobre 2007)

Alla seconda e ultima visione della Baronessa di Carini – mini-serie terminata lunedì su Rai Uno – è evidente fin da subito che la povertà senza tempo dell’interpretazione del protagonista maschile (Argentero) è pari solo alla bellezza di quella femminile (Puccini), e che se non fosse stato per le presenze del genio tardivo di Lando Buzzanca e del talento sempreverde di Enrico Lo Verso, questa fiction non sarebbe stata ricordata neanche come una nuova edizione di Elisa di Rivombrosa senza siparietti lesbo-chic, ed Enrico Beruschi nei panni di un aristocratico.

Del resto, due sono gli elementi notevoli di questo lavoro di cui il regista Umberto Marino non ha potuto fare a meno: uno del tutto stra-cultuale (per usare un’espressione alla Marco Giusti) e meta-televisiva, e uno un poco glottologico.
Il primo punto è interamente portato a spalla da Buzzanca. Per chi non l’avesse visto in azione, basterebbe dire che a un certo punto l’Homo eroticus ipnotizza Vittoria Puccini. E’ un momento che dovrebbe essere catartico non solo per l’economia dell’intreccio della Baronessa, ma anche un po’ per tutto quello che sta accadendo – pure per colpa di gente come Argentero, e pure a scapito di Buzzanca e di possibili, nuovi Buzzanca – nel cinema e nella televisione italiana. Da medico nella scena, come da grande attore nella realtà, in sostanza Lando azzittisce Vittoria per un attimo e le rivela chi è veramente, dentro e fuor di metafora: da una parte, la reincarnazione dell’originale baronessa di Carini, vissuta nel 1500; e, dall’altra, un’attrice che non ha davvero niente a che spartire con Janet Agren, che fece il suo stesso personaggio nel ’75, nella prima versione televisiva di questa storia.

Il secondo punto riguarda un particolare aspetto della recitazione di oggi: una specie di metodo Stanislavskij invertito di senso. La finzione non sarebbe più sentita e fatta propria dagli attori al punto da diventare, fosse anche per il solo spazio di una scena, parte della loro vita; ma, viceversa, è decisamente sempre più una parte della loro esistenza che traspare nel personaggio che interpretano. Nella fiction, così, spesso con c’è miglior cattivo di chi un po’ bastardo, in verità, lo è veramente. Allo stesso modo, Luca Argentero non poteva chiedere una parte più minuziosamente ritagliata su di sé, al direttore del casting che lo ha voluto interprete di un pessimo attore: Luca Corbara, un giovane cartografo che per la maggior parte del metraggio a sua disposizione deve fingere di non sapere dove si trova – oltreché a far finta di non sapere certe cose sotto tortura.

La Baronessa di Carini, inoltre, inverte un’altra tendenza nei nostri sceneggiati contemporanei, ormai vecchia come i corsi di dizione: quella secondo cui i buoni hanno il diritto di mantenere, in parte o in tutto, la loro parlata regionale di origine, mentre, i cattivi, no; e sono costretti a separarsi ancor più dallo spettatore sfoggiando spesso un perfetto italiano, ritenuto evidentemente crudele o iniquo dalle produzioni. Una tendenza, peraltro, incalzata dalle mitiche televendite di macchine per cucire in umbro moderno o fianese ferillesco (parlate giudicate forse dai marketer al di sopra di ogni sospetto d’inganno o disonestà) e solo più recentemente caduta in disgrazia, in tempi del tutto sospetti, con alcune conduzioni televisive di Antonio Socci, fra i toscanacci meno riusciti che il centro-Italia abbia saputo crescersi in seno.

Qui avviene invece che siano i buoni ad essere portatori di una parlata non diciamo italiana, ma quantomeno all’italiana; mentre ai cattivi che di volta in volta appaiono sullo schermo è concesso di parlare in un siciliano anche relativamente stretto, mentre picchiano di santa ragione un ragazzotto pallido di Torino, che forse, anche agli occhi dei suoi vari aguzzini, rispettabilissimi signori che si guadagnano il pane e le birre facendo le comparse, fra le sue colpe doveva contare anche quelle di essersi ridoppiato estremamente fuori sincrono e soprattutto di essere stato preso al Grande Fratello.

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