lunedì 22 ottobre 2007

Nell'inferno di Artù Gnocchi scherza sul serio

(in edicola il 20 ottobre 2007)

Da quando le grandezze di Alda D’Eusanio e della sua originaria caricatura del talk-show non vengono capite più neanche per sbaglio – e l’Antipatico di Belpietro, per quanto sia perfettamente compreso, tuttavia viene visto – una trasmissione italiana può solo scherzare sul serio, come licitandolo in partenza, perché possa ottenere il permesso di far sogghignare su quanto poco ci sia da ridere sul resto dei palinsesti, o in generale della serata. E allora – per quanto si debba aggiungere: per fortuna – è a programmi come Artù di Gene Gnocchi che resta il compito di dover fare la parodia della televisione senza che si corra il rischio di essere o troppo sottili, al punto da risultare incompresi – vedi il caso della D’Eusanio – o troppo espliciti, fino a incarnarla involontariamente in noi stessi, e non in ciò che si mostra ¬– vedi Belpietro.

Artù (su Rai Due, il giovedì alle 23.20) è una riuscitissima rappresentazione di un inferno, e precisamente uno di quegli inferni alla Hieronymus Bosch, in cui tutto ciò che non va perfettamente al contrario, rispetto alla vita, va semplicemente dove gli pare. Riuscendo dunque ad essere il dopo-Santoro che forse Michele si meritava dantescamente.

A partire dal nome del programma, dalla bella grafica dei titoli di testa e dalla sua scenografia, tutto è disillusione del circolo virtuoso che si riteneva sarebbe stata questa nuova fase della televisione, così come la stiamo conoscendo, che invece tanto viziosa si è rivelata (se davvero è quella, forse in declino, ma ancora al potere, dei reality-show e della loro influenza sui generi tradizionali).
La tavola rotonda al centro dello studio è simbolo di questo circuito, interrotto dalla figura del conduttore, un dittatore, ma del tipo chapliniano, la cui spada appare sguainata nel logo del programma, solo per poi risultare spezzata e inservibile all’analisi più attenta di un riflettore a raggi x puntato su di essa. Che rivela pure il memento mori – giustamente macabro – dello scheletro dello stesso conduttore. Poco dopo, il suo cranio rotolerà su e giù per i nomi del cast tecnico.

E’ uno dei possibili finali del sogno dello scambio fra produttore e consumatore, e quasi della fusione fra i rispettivi ruoli, di cui neanche una puntata di Buona Domenica ci aveva illuso. Ma, al tempo stesso, quella figura stilizzata e comicamente eroica è pure volontà di riattivare alle sue massime possibilità il vecchio corso, tramite una conduzione fatta soprattutto di autori, e bravi autori, di nuovo fermamente seduti al loro posto; fino a che qualcosa di veramente nuovo non sarà all’orizzonte: un obbiettivo che la televisione per ora ha forse rilanciato alle nascenti net-tv. Raramente si vede un titolo di testa così funzionale e significativo.

E così, tutto quello che vediamo in Artù, dalle più belle vallette del momento (naturalmente, la più comoda e furba delle parodie) agli ospiti come cavalieri convocati dal loro capo, ma ben legati alle loro sedie, che scorrono su binari; passando per la solo apparente banalità dei sondaggi e degli argomenti proposti, è sberleffo a una realtà della comunicazione che non ha ormai più né tanta ragione di esistere né bisogno di paladini o apologeti, e che dovrebbe essere stata pugnalata al cuore da un bel pezzo.

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