lunedì 11 febbraio 2008

Doc3, da prendere al Volo

(in edicola il 9 febbraio 2008)

Se ci fate attenzione, il giovedì notte - neanche tanto inoltrata - Fabio Volo conduce Doc 3, una rassegna di documentari soprattutto internazionali, molto curata da Flavia Scollica e Lorenzo Hendel. Il vecchio Volo, per una volta, non è colto nel solito ruolo che lo contraddistingue ovunque, dal cinema alla radio: del conduttore o attore in onda per caso, carburato dalla sola invidia del prossimo che non sia al suo posto, risultando antipatico o simpatico ai più (secondo l’orientamento più o meno meritocratico dei soggetti campione) proprio perché non sembrava essere in grado di fare nulla di quello che gli era richiesto, prima di farlo e basta, e anche discretamente bene, c’è da dire. Qui, a condurre sobriamente una trasmissione di nicchia, senza ospiti succinte che lo baciano sulla fronte, riesce bene e basta. E non è che si tratti solo di annunciare pierobonescamente un titolo, e poi nascondere la mano, dietro le quinte del privilegio di guadagnarsi da vivere in una metropoli giurando sui propri beni più cari che quei film, su Rete 4, sono veramente Bellissimi. E’ come se al tempo stesso chiedesse scusa per tutti quei film di Alessandro D’Alatri e ci dimostrasse che c’era un motivo per arrivare così, intatto dalla nostra buona considerazione, fin qui, a Doc 3, per stupirci con questa trasmissione così sobria, eppure cinematografica.

Grande lavoro, quello che viene proposto nell’ultima puntata andata in onda: “China Blue”, viaggio nelle fabbriche di mancati sogni per migliaia di piccolissimi lavoratori cinesi. Viene introdotto da una rappresentante dell’associazione dal bel nome “Abiti puliti”, che si occupa di sensibilizzare sull’origine anche degli indumenti più firmati che ci troviamo a indossare. Parla come una Anna Galiena innervosita delle grandi occasioni, e quando si rilassa è solo una Margherita Buy, per un attimo, leggermente meno timida ma comunque nervosissima. Ma ha una causa importante e originale da sostenere, e anche se non lo fa da professionista navigata della comunicazione televisiva, lo fa, e per fortuna il documentario che segue al suo intervento è talmente ficcante e ben realizzato, che è costato la galera al suo regista Micha X Peled e, se il nervosismo di lei aumenterà ancora, almeno aumenta di pari passo pure il nostro, a vedere quello che c’è da vedere.

La fabbrica di Lifeng appare come una piccola Cinecittà all’esterno, uno di quei posti che sai che non saranno neanche lentamente simili a come appaiono fuori, una volta dentro. Solo che invece di essere scalcinata fuori, e fintamente ricca dentro, come sono i set, è pulita e rilassante fuori, e l’inferno dentro. Soprattutto, colpisce l’uso delle tecnologie informatiche, all’interno di qualcosa che considereresti medievale nella sua bestialità. O, forse, è ancora più medievale controllare di fatto ogni piccola operaia con una webcam, oltreché naturalmente multarla un po’ per ogni singolo minuto di ritardo. Guardare come vengono distribuiti e consumati i pasti (detratti dalla paga) di quella che è una vera e propria parodia di una mensa. Passati attraverso una feritoia in tanti piattini tutti diversi, ma all’apparenza ugualmente sporchi, non vengono poi consumati in uno spazio comune, ma nelle singole stanze e stanzette che gli operai occupano nella stessa fabbrica in cui prestano lavoro. Quando il documentario finisce pensiamo, per mezzo dei jeans che indossa Fabio Volo, anche quanto sono brutti i nostri.

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