venerdì 16 novembre 2007

Bombay, il programma "impegnato"



(in edicola il 15 novembre 2007)

Il nuovo programma di Gianni Boncompagni non è solo la vendetta, servita ancora tiepida, di Ambra Angiolini. In realtà, Bombay è probabilmente il programma più “impegnato” della televisione italiana, e non solo non lo sa e non lo vuole sapere ma, se pure lo sapesse, non ci terrebbe neanche un po’ a farlo sapere in giro. È vero che l’Angiolini, di fatto, è tornata a lavorare col suo vecchio scopritore, e non più da pupazza radiocomandata, come ai tempi di Non è la Rai, controllata com’era dalla distanza di una cabina di regia apparentemente invisibile, ma onnisciente e onnipresente. In Bombay, oggi, proprio lei, quel simbolo riuscitissimo della televisione sbagliata (solo per posa e per copione, bella senz’anima; anzi, peggio: bella con l’anima di un settantenne) torna al fianco di Boncompagni proprio al posto di comando, che però, nel frattempo, è diventato lo studio stesso in cui è ambientata la trasmissione. Il backstage di un film o di uno show, di solito, ci dimostra o quanto è difficile realizzare quel prodotto, o gli errori che sono stati commessi nel realizzarlo. E un backstage incompiuto o fallimentare che diventi show, si sa, è ormai un sottogenere anch’esso, cinematografico e televisivo: basti pensare ad “Amici di Maria De Filippi”.

Ma questa volta, in Bombay, si ha il coraggio di andare oltre, e di dimostrare attraverso l’improvvisazione totale - condotta ad arte da un piccolo grande genio che non può perdere quasi nulla - quanto può apparire facile mettere su un programma Tv, e quanto è difficile comunicarvi realmente qualcosa, come nella migliore tradizione di un certo teatro dell’assurdo. Aggiornato ai tempi in cui solo le promesse non mantenute contano davvero, mentre i sogni si realizzano tutti e subito sullo schermo di un videogioco, o quello di un cellulare ad alta risoluzione. E, dunque, ospitare Ignazio La Russa che si finge barbiere, senza che alcun vero barbiere si sia trovato, disposto a fingersi Ignazio La Russa, e via così, fino a Sabelli Fioretti che farebbe il padreterno, e tenta di portare un ordine fra tutti quanti, vestito di una tunica bianca su un trono dorato.

È un ritorno alla scoperta, anche solo tecnica, prima ancora che contenutistica, di uno strumento, come la telecamera, che ha detto talmente tanto, concludendo talmente poco, che pare, almeno agli occhi di Boncompagni, non avere altro presente che questo: tornare a gioie semplici, al piacere dell’idea stessa di trasmettersi, di trasferirsi magicamente e irresponsabilmente nelle case dei soliti ignoti, o per qualche istante nel loro cervello, talmente usurato dall’abitudine al peggio, che solo Tinto Brass vestito da suora alla Paolo Villaggio (con vele felliniane), può rianimare con un bocca a bocca osceno, pur tenendo un enorme cubano fra le labbra. In Bombay il niente (i politici nonsensical, attaccati più a un nome falso che a un’opinione) e il suo contrario (la fisicità flagrante delle giovani e delle ballerine, che provan e riprovano un tango che non sarà mai realmente ballato) giocano a rimpiattino con i ritmi, le pause, le noie e i piaceri televisivi cui ci siamo avvezzi. E il bello è che tutto questo non è affatto un parodiare, un capovolgere la verità, in nome di una risata che raramente arriva (e non solo per le battute infelici, ma anche per quelle riuscitissime: come nella migliore tradizione dei comici impegnati) ma, ahinoi, la verità stessa.

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