mercoledì 14 novembre 2007

La fiction degli errori e dello spreco di talento



(in edicola il 13 novembre 2007)

Nella fiction su Rino Gaetano lo spreco di talento degli interpreti avviene in un ordine di grandezza molto importante. Certo, non sarà evidente come nell’ultimo Guerra e pace (stiamo pur sempre parlando di Chiatti e Santamaria, per quanto cantino spesso), ma basta perché i fan più hardcore del cantautore calabrese possano cominciare ad aggiungere, alle celebri litanie laiche dell’immortale brano Ma il cielo è sempre più blu: “C’è chi si gira nella tomba”, canticchiandolo in cuor loro, forse con leggero cattivo gusto, ma non del tutto a torto. I grossi errori della mini-serie, in verità, paiono facili da schematizzare. Il primo è lo stesso che si commette puntualmente ogni volta che un critico, uno storico o uno sceneggiatore mediocre compie un approccio insincero e, appunto, mediocre alla biografia di una persona eccezionale, che non comprende ma che deve fingere di comprendere per lavoro. E vale a dire il tipico effetto Caravaggio, che per secoli fu ritenuto, prima ancora che un pittore sublime – per quanto profondamente immerso nella realtà – da sostenitori e detrattori, rispettivamente un genio o un folle per lo stesso, identico motivo: perché il ragazzo beve troppo, è strano, il prezzo della creazione è stata una vita insalubre, consideriamolo maledetto.

Fatte le dovute proporzioni, questa è una semplificazione che, naturalmente, non vale neanche per Gaetano, come in genere non valgono mai le semplificazioni dettate non dalla sintesi o dalla riflessione, ma dalla voglia di celare alla meno peggio l’equivoco, la mistificazione o, misfatto ancora meno depenalizzabile, nel 2007: il didascalismo. Nemmeno il popolo televisivo, per quanto in basso possa cadere, può credere alla scena di apertura della fiction, in cui la recitazione di Claudio Santamaria (una delle poche promesse non ancora mancate del nostro cinema, da quando si è deciso di smettere di sopravvalutare, senza che questo sentimento fosse particolarmente ricambiato, l’attore Stefano Accorsi) lotta invano contro la scrittura dei suoi sceneggiatori. Lunghe sequenze lo portano nientemeno che a ubriacarsi in casa sua negli anni ottanta, mentre tutto ci sembra talmente normale che solo la tipica colonna sonora strumentale da fiction italiana, interrompendo il brano di Rino dei titoli, Mio fratello è figlio unico, riesce nel compito, tristissimo ma necessario, di ricordarci che stiamo guardando proprio una fiction italiana.

Raccontare con questo stile l’opera e la poetica di un uomo che ha saputo tramandarci, ad esempio, il più delicato elogio di un tema delicatissimo di per sé, e raramente trattato, come la masturbazione femminile (Sei ottavi), attraverso quella perfetta serie di metafore concentriche dell’atto in sé (che riescono, in fine, quasi a visualizzarne graficamente l’atto, e i desideri che genera e da cui è alimentato al tempo stesso), non è solo impreciso e insicuro, è un atto vandalico contro la bravura e gli sforzi per esercitarla. Altri punti: non si può rappresentare Rino Gaetano che pronunci “Gianna è commerciale”, con lo spirito involontario di una di quelle parodie dei “ggiovani” di dieci anni dopo, alla Corrado Guzzanti. Non si può rappresentare Rino Gaetano che si faccia inseguire da Laura Chiatti, facendole promettere tanti baci quanto sono le strofe che canteranno insieme di una sua canzone, con lo spirito, stavolta volontario, di una di quelle parodie della letteratura di un giovane di dieci anni prima: Federico Moccia. Punto.

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