mercoledì 7 novembre 2007

Il Decameron di Luttazzi. Un varietà di coscienza



(in edicola il 6 ottobre 2007)

E' molto difficile indovinare cosa cercheranno di demolire o oscurare di più del nuovo one-man-show di Daniele Luttazzi, se i monologhi o il resto. Perché sempre di un solo uomo si tratta, sebbene la formula televisiva si sia innovata, e di molto, includendo nel suo corso anche sketch più o meno corali e canzoni di testa e di coda sì scritte dal vero Daniele, ma evidentemente interpretate o da una versione di lui posseduta da Luca Sardella, o da una reincarnazione dello stesso che ha studiato un po’ d’inglese e molta medicina. Non è più solo un talk-show interiore: è un varietà di coscienza. In Decameron, l’autore è tutto, e niente esiste di per sé all’infuori di lui e di un testo scritto rigorosamente e perentoriamente, con un’autorità su chi lo interpreti e quasi anche su chi lo ascolti solo che aveva eguali solo, rispettivamente, in Gianni Boncompagni che dettava le sue volontà ad Ambra Angiolini (ora pure lei su la7), e nei seni ipnotici delle signorine dei telefoni erotici notturni.

Allo stesso modo che nel teatro di Oscar Wilde, in cui perfino le vecchie aristocratiche più compite, è come se parlassero sempre e solo con la stessa voce, e sono dotate dello stesso senso dell’umorismo del loro autore, così nei “dialoghi platonici” anticlericali orchestrati da Luttazzi per Decameron, come in ogni altra gag, Luttazzi è in ogni voce e in ogni faccia, anche come ritorno ad una trapassata autorialità - monocratica e onnipresente - che sfugga alla nuova televisione, sempre più rilassata nei modi dell’improvvisazione, o dello sfruttamento, ormai, dell’improvvisazione altrui. Quello che Marco Paolini ha fatto con la contaminazione definitiva fra televisione e teatro (cosa che neanche le più coraggiose puntate di Forum possono più), Luttazzi fa ormai con la performance più strettamente artistica e, nella fattispecie, tardo-dadaistica. Che lo vogliamo o no, Decameron ha davvero spostato di un bel po’ più in là il confine del televisibile. Mai si era rappresentata così cinicamente la politica italiana, o realisticamente la morte. O, comunque, mai le due cose erano state così simbolicamente accomunate e fatte l’una metafora dell’altra.

Solo un medico come Luttazzi direbbe così di certe cose. Neanche Veronica Lario saprebbe parlare di Berlusconi con tanto distacco. In questo, Luttazzi è il più perfetto anti-Grillo: perché convince di più, e suda tanto meno. E non si guarda in faccia a nessun politico, ovviamente, come proprio la morte fa con tutti gli altri, del resto. Tanto Berlusconi è doverosamente spernacchiato da un satiro che gli ha vinto tutte le cause, così Prodi è passato al colino da un satiro che pure gli ha votato a favore. Il culmine della prima puntata (sabato scorso) lo si raggiunge nella sit-com “A babbo morto”. Mai, dai tempi degli Articolo 31 (che però erano viziati dal fatto di essere fidanzati con Elenoire Casalegno), si era rappresentata così compiutamente la condizione dell’italiano medio di fronte alla morte non solo della politica e della televisione, ma anche di molte altre speranze.

Un moccioso quarantenne perennemente sporco di nutella, che si rifiuta di seppellire il genitore defunto al punto che lo fa imbalsamare, allo scopo di continuare a guardare tv spazzatura in sua compagnia, come se niente fosse, e come se avesse gia cominciato a puzzare ben prima del trapasso stesso. Infine, la gag della macchina da scrivere immaginaria e musicale, alla Jerry Lewis, ci commuove quasi, ricordandoci quanto sia dotato anche solo artisticamente questo comico, e a quanto sappia rinunciare per il solo piacere di infischiarsene. Auguri di molte altre puntate a Daniele Luttazzi, che è al tempo stesso il politico meno populista, e il populista meno politicizzato che ci sia dato di avere, e non è poco.

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